ISRAELE, Gerusalemme. Coronavirus: chiusa la Basilica del Santo Sepolcro per almeno una settimana

Nello Stato ebraico adottate ulteriori misure restrittive anche con riguardo alle pratiche religiose. Primi casi di positività tra i palestinesi della Striscia di Gaza

Da ieri pomeriggio a Gerusalemme anche la basilica del Santo Sepolcro è chiusa e i pellegrinaggi dei fedeli cristiani sono stati sospesi, una misura di natura eccezionale assunta dalle autorità civili che, almeno per il momento, si prevede che avrà la durata di una settimana.

Le autorità ecclesiastiche delle varie confessioni, prendendo atto della decisione, in linea con le dichiarazioni di alcuni giorni or sono del patriarca greco-ortodosso e di quello armeno della città, nonché del custode di Terra santa, hanno ribadito la necessità di attenersi alle norme precauzionali imposte a seguito del diffondersi della pandemia da Covid-19 anche nel Paese.

In fin dei conti le restrizioni previste sono le medesime in vigore in tutto Israele, esse impongono di non formare gruppi superiori alle dieci persone, di tenere una distanza minima di due metri tra persona e persona (in Italia la distanza consigliata è invece di un metro), di evitare ogni forma di devozione espressa con il contatto fisico (come baciare o accarezzare pietre, frammenti della Torah, abiti o icone) e di attenersi a ogni disposizione impartita delle autorità competenti.

Ovviamente, i trasgressori di queste disposizioni vanno incontro all’irrogazione di sanzioni di natura sia penale che amministrativa.

Sulla falsariga dell’Italia, anche Israele si adegua al regime restrittivo che limita fortemente gran parte delle attività, mentre i servizi di trasporto pubblico hanno ridotto il numero delle corse.

Il primo decesso causato (direttamente o indirettamente) da Covid-19 si era verificato venerdì scorso presso l’ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme, dove era spirato un anziano di ottantotto anni, ricoverato in condizioni molto gravi e affetto da preesistenti polipatologie.

Nel tentativo di limitare la diffusone dei contagi il Governo israeliano ha adottato misure di vasta portata, quali ulteriori severe restrizioni di movimento ai cittadini e drastiche limitazioni del numero di lavoratori autorizzati a proseguire le loro attività, espletate sia nel settore pubblico che in quello privato.

Tutte le esercitazioni e i corsi di formazione militari precedentemente previsti sono stati rinviati, mentre i riservisti di Tsahal sono stati richiamati in servizio per l’impiego in funzione di  contrasto di questa calamità.

Lo stesso Rabbinato si è conformato alle nuove disposizioni emergenziali, indirizzando alle sinagoghe indicazioni sull’afflusso dei fedeli in occasione delle preghiere dello Shabbat, oltre a quelle sull’igienizzazioni dei templi, mentre ha concesso alle persone in quarantena di poter pregare nelle proprie case.

Sul piano della sicurezza, i Dipartimenti competenti per materia monitorano i telefoni cellulari e gli eventuali contatti avuti dalle persone contagiate dal virus, allo scopo lo Shin Bet fa ricorso alle sperimentate tecniche normalmente in uso per contrastare il terrorismo.

Tali misure erano state approvate all’unanimità dai ministri dell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu.

Da allora nel Paese i contagi hanno abbondantemente superato le duemila unità, questo mentre alla frontiera tra l’Egitto e la Striscia di Gaza quattro giorni fa erano stati riscontrati i primi due casi di infezione da coronavirus, si tratta di due palestinesi rientrati dal Pakistan attraverso l’Egitto e quindi il valico confinario di Rafah, persone risultate positivi dal test del Covid-19.

Questi due primi casi di coronavirus nella Striscia, confermati successivamente dal viceministro della salute del governo di Hamas Youssef Abulreesh, hanno generato timori, in quanto il piccolo territorio palestinese, esteso per soli 360 chilometri quadrati, è uno dei luoghi più sovraffollati al mondo. I due sono stati posti in quarantena al valico di Rafah stesso.

Hamas ha conseguentemente disposto la chiusura dei mercati di strada e le sale per i matrimoni.

Praticamente isolata sia dall’Egitto che da Israele, Gaza è afflitta da una diffusa disoccupazione e dalla violenza, mentre il suo sistema sanitario è insufficiente a garantire un’adeguata assistenza alla popolazione, al punto che, malgrado la mai cessata conflittualità nei confronti di Israele, alcuni casi di patologie più gravi vengono curate negli ospedali dello Stato ebraico.

Al fine di contenere il numero di contagi, in Cisgiordania si è assistito a una ripresa della collaborazione tra lo Stato ebraico e l’Amministrazione nazionale palestinese (Anp), essa ha avuto luogo attraverso i canali ufficiali

Il 18 marzo il presidente israeliano Reuven Rivlin ha chiamato il suo omologo palestinese, Mahmoud Abbas, confermandogli che in questa critica fase «la cooperazione risulta vitale» e che «la capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonia anche la reciproca capacità di lavorare insieme in futuro per il bene di tutti noi».

Lo stesso giorno, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato medici del settore arabo per sottolineare loro che tutti i cittadini devono collaborare con il ministero della sanità», poiché, a detta del premier, nel West Bank non verrebbero osservate a sufficienza le direttive diramate per l’emergenza.

Gerusalemme e Ramallah hanno quindi concluso un accordo che consente a 30.000 lavoratori palestinesi della Cisgiordania di rimanere in Israele per almeno due mesi al fine di limitare il traffico ai valichi di frontiera e quindi prevenire la diffusione del virus. Un numero che potrebbe aumentare a 70.000, ma sulla base dell’accordo lo Stato ebraico dovrà fornire a essi alloggi e servizi sanitari. Tuttavia, le autorità dell’Anp hanno consigliato ai questi stessi lavoratori di non fare ingresso negli insediamenti israeliani.

Circa 120.000 palestinesi della Cisgiordania hanno il permesso per entrare quotidianamente in Israele per ragioni di lavoro.

L’economia della Cisgiordania dipende dai salari di queste persone per il 14%, su un Pil complessivo di 18 miliardi di dollari. I salari in Israele sono più alti di quanto non lo siano in Cisgiordania, addirittura talvolta anche più di quelli corrisposti negli insediamenti ebraici (colonie), d’altro canto, anche l’economia di Israele dipende dai lavoratori pendolari palestinesi, infatti essi vengono impiegati nell’edilizia e nell’agricoltura.

Alcuni analisti del Medio Oriente osservano che questo accordo è indice dell’urgente necessità di una cooperazione ancora più stretta, poiché il coronavirus rischia di diffondersi ampiamente nelle prossime settimane e mesi.

Condividi: