ISRAELE, elezioni anticipate. Likud in lieve vantaggio, permane tuttavia incertezza riguardo allo stallo politico

Gli esiti delle urne confermerebbero però lo stallo, poiché nessuno dei partiti maggiori è in grado di formare coalizioni politiche che raggiungano almeno i 61 seggi alla Knesset necessari per governare.

Al momento 36 seggi su 32 di Gantz sono stati ottenuti dalla destra, quindi a Netanyahu ne mancherebbero ancora due per raggiungere la maggioranza di 61.

I risultati emersi dallo scrutinio del 90% delle schede vedono il blocco di destra guidato da Benyamin Netanyahu perde un seggio in parlamento, passando quindi da 60 a 59, contro i 54 della coalizione di centrosinistra di Benny Gantz, che però include in questo computo anche i partiti arabi, ed esclude Avigdor Lieberman, leader del partito Israel Beitenu.

Il Likud scenderebbe dunque a 36 seggi, mentre Kahol Lavan (Blu-Bianco) salirebbe a 32, con 4 punti di scarto tra i partiti rivali.

Alla formazione di una quadro completo dell’esito di questa terza tornata elettorale anticipate mancano però i voti dei militari in servizio, dei diplomatici presenti nelle sedi all’estero e dei diciotto seggi nei quali hanno votato gli oltre 4.000 cittadini israeliani in quarantena a causa dell’epidemia di coronavirus.

Netanyahu ha già avviato trattative per la formazione un nuovo esecutivo. «La più grande vittoria della mia vita – ha affermato Netanyahu nel corso di un discorso tenuto davanti agli esponenti del suo partito -, gli israeliani ci hanno dato fiducia perché sanno che gli abbiamo portato la migliore decade nella storia di Israele. È stata una grande vittoria per la destra, ma prima di tutto e soprattutto per noi uomini del Likud».

Evidentemente il leader del Likud, personalità politica di lunghissimo corso, si sente in tasca la vittoria alle elezioni, o almeno cerca di fare di tutto per dare a intendere all’esterno questo, malgrado il suo futuro politico sia oscurato da una serie di pericolose incognite.

Infatti, al netto delle sue trionfali parole, oltre alle grandi difficoltà nella formazione di uno stabile esecutivo che governi il Paese, su di lui pende anche il giudizio penale della magistratura.

Proprio il prossimo 17 marzo, infatti, giorno in cui il Presidente della Repubblica Reuven Rivlin dovrebbe avviare le consultazioni politiche per la formazione del governo, coinciderà con l’udienza in tribunale di inizio del processo che vede Netanyahu imputato delle gravi accuse di corruzione frode e abuso di  ufficio.

E, qualora quest’ultimo fosse stato già investito della delega di premier incaricato per la formazione di un governo, per Israele si tratterebbe della prima volta che un fatto del genere accade.

Nel frattempo, la Corte Suprema dello Stato ebraico è stata investita della gravosa decisione sulla questione, a seguito delle petizioni  presentate ieri che chiedono l’impedimento del conferimento del mandato per la formazione di un esecutivo ai politici incriminati, fattispecie oggi non prevista dalla legislazione israeliana.

Per Israele si è trattato delle terze elezioni politiche in un anno, dato che i risultati delle precedenti consultazioni legislative non avevano permesso la formazione di una maggioranza politica alla Knesset che sostenesse un esecutivo sufficientemente coeso, dunque in grado di guidare il Paese in una fase delicata come quella che sta attualmente attraversando.

Un terzo tentativo al quale Israele è giunto a seguito dell’impasse anche in parte dovuta alle caratteristiche del sistema elettorale vigente, che prevede una soglia di sbarramento del 3,4%, che favorisce l’accesso alla Knesset anche a partiti politici e politico-religiosi di ridotte dimensioni, tuttavia in grado di esercitare un notevole  potere contrattuale nel corso sia delle trattative per la formazione dei governi che, successivamente, nel loro successivo indirizzo politico ed economico.

Si afferma spesso che l’universo politico israeliano si connoti «più per le esclusioni che per le intese», in quanto nel gioco del bilanciamento e della coesistenza delle variegate componenti della società  «tutti sarebbero contro tutti».

Esclusioni che riguardano in primo luogo i partiti arabi – in Israele i cittadini arabi costituiscono attualmente il 20% del totale della popolazione – coalizzatisi in questa tornata elettorale in un’unica lista comune, rappresentano un blocco molto forte, essendo la terza formazione dopo il Likud e Kahol Lavan, tuttavia la loro presenza in parlamento riveste un’importanza relativa, poiché gli altri partiti (ebraici) ne rifiutano addirittura un appoggio esterno a un’eventuale coalizione di governo.

E dura è stato il commento a queste elezioni espresso dai palestinesi dell’Olp, che per bocca (in realtà di un Twitt) di Saeb Erekat – segretario generale dell’organizzazione che fu di Arafat – hanno affermato che: «A vincere le elezioni israeliane sono state le colonie, l’occupazione e l’apartheid, poiché la campagna elettorale del Likud di Netanyahu è stata incentrata sulla continuazione dell’occupazione e del conflitto, che costringerà il popolo della regione a vivere per la spada con il prosieguo della violenza, dell’estremismo e del caos».

In questa situazione, anche in ragione delle minacce che su di lui incombono, il Paese, che sta vivendo una transizione che lo conduce sempre più verso destra, emblematizzata dalla sostanziale scomparsa dalla scena politica dello storico Partito laburista (Avodah) e dalla contestuale “deriva” del Likud.

Ma, nonostante queste epocali dinamiche interne, gli ultimi responsi delle urne confermano però lo stallo, infatti nessuno dei partiti maggiori riesce a formare coalizioni politiche che raggiungano almeno quei 61 seggi alla Knesset che gli permetterebbe di governare.

Un’impasse che potrebbe confermarsi come futura prospettiva, fino a delle possibili ulteriori elezioni che potrebbero venire indette per la prossima primavera, a meno che i partiti non transigano e accettino la proposta di Rivlin e formino un governo di unità nazionale che preveda l’alternanza al premierato dei due leader del Likud e di Kahol Lavan, soluzione sulla quale però pesa la fortissima opposizione di Lieberman.

Qualora si affermasse nelle urne, Netanyahu avrebbe il via libera per procedere all’implementazione del cosiddetto «Piano di pace Trump», che gli consentirebbe di attuare la sua politica (Insediamenti ebraici e annessioni) in Cisgiordania.

Anche Gantz ha formalmente accettato il Piano Trump, ma la posizione di Kahol Lavan nei confronti dei palestinesi del West Bank è comunque “più morbida” di quella delle destre.

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