Nella recente intervista rilasciata alla televisione pubblica italiana, a una domanda della giornalista Monica Maggioni il presidente siriano Bashar al-Assad ha dichiarato di aver risposto alla lettera inviatagli dal papa lo scorso 22 luglio, i cui contenuti tuttavia non sono stati resi noti.
«In giugno papa Francesco le ha scritto una lettera chiedendole di avere rispetto per la popolazione – esordiva la Maggioni -, in particolare parlava di Idlib, dove la situazione è ancora molto tesa, lì si combatte… e le ricordava di prestare molta attenzione al modo i prigionieri vengono trattati nelle carceri. Lei cosa ha risposto?».
La prima replica del presidente siriano fu la seguente: «La lettera del papa riguardava la sua preoccupazione per i civili in Siria e ho avuto l’impressione che, forse, il quadro in Vaticano non fosse completo. Questo è prevedibile, dal momento che la narrativa principale in Occidente parla di questo “cattivo governo che uccide la brava gente”, come si vede e si sente negli stessi media. Ogni proiettile dell’esercito siriano e ogni bomba uccide solo i civili e distrugge solo ospedali, non uccidono i terroristi mentre prendono di mira quei civili. Questo non è corretto, non è la verità. Quindi ho risposto con una lettera con la quale spiegavo al papa la realtà in Siria, poiché siamo i primi a preoccuparci della vita dei civili, in quanto non puoi liberare un’area quando il popolo è contro di te, non puoi parlare di liberazione quando i civili sono contro di te o la società lo è. La parte più cruciale nel liberare militarmente qualsiasi area è quella di avere il sostegno del popolo in quell’area o nella regione in generale. Questo è stato chiaro negli ultimi nove anni, e non averne il sostegno è contrario ai nostri interessi».
«Ma, questo appello la ha costretta a ripensare alla protezione dei civili?», aveva poi rilanciato la giornalista già direttrice della Rai.
«No, questo è qualcosa a cui pensiamo ogni giorno – puntualizzò quindi al-Assad -, non solo come morale, principi e valori, ma come interessi. come ho appena detto, senza questo supporto, senza sostegno pubblico, non puoi ottenere nulla. Non puoi avanzare politicamente, militarmente, economicamente e in ogni aspetto. Non avremmo potuto resistere in questa guerra per nove anni senza il sostegno pubblico e non avremmo potuto avere il sostegno pubblico mentre si stavano uccidendo civili. Questa è un’equazione evidente che nessuno può smentire, quindi, ecco perché ho detto, indipendentemente da questa lettera, che questa è la nostra preoccupazione. Ma, ancora una volta: il Vaticano è uno Stato, e pensiamo che il ruolo di qualsiasi Stato, se si preoccupano di quei civili, è quello di andare alla ragione principale. La ragione principale è il ruolo occidentale nel sostenere i terroristi e le sanzioni contro il popolo siriano che hanno peggiorato la situazione, e questa è un’altra ragione che ha portato i rifugiati che avete in Europa adesso. Non vuoi i rifugiati, ma allo stesso tempo crei la situazione o l’atmosfera che porteranno loro a dire “andiamo fuori dalla Siria da qualche altra parte” e, ovviamente, una volta detto ciò andranno in Europa. Quindi questo Stato, o qualsiasi altro Stato, dovrebbe occuparsi delle ragioni, e speriamo che il Vaticano possa svolgere quel ruolo in Europa e nel mondo per convincere molti Stati a smettere di immischiarsi nella questione siriana, smettere di violare il diritto internazionale. È abbastanza. Abbiamo solo bisogno che le persone seguano il diritto internazionale: i civili saranno al sicuro, l’ordine tornerà e tutto andrà bene. Nient’altro».
Allo specifico riguardo, in un lancio dell’agenzia stampa ACI diffuso quest’oggi viene precisato che a suo tempo il cardinale Pietro Parolin (segretario di Stato vaticano) aveva voluto chiarire che «la grande preoccupazione della Santa Sede è sempre umanitaria (…) poiché noi ci muoviamo fondamentalmente su quel piano, in quella visione e in quella prospettiva».
Nella lettera del pontefice veniva espressa preoccupazione in modo particolare per la situazione umanitaria in atto a Idlib e, conseguentemente, si chiedeva al presidente al-Assad di compiere «gesti significativi» che potessero portare a una conclusione del conflitto.
La lettera fatta pervenire ad Assad alla fine del luglio scorso per il tramite dell’arcivescovo ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson aveva ingenerato diverse reazioni.
Se da un lato era stato registrato apprezzamento per l’apertura di un canale politico-diplomatico, dall’altro veniva però sottolineata la necessità di una più chiara definire della magmatica situazione in atto nel Paese arabo sconvolto dalla guerra civile, con una particolare attenzione a ciò che stava accadendo a Idlib.
In quelle arroventate giornate d’estate si assisté alla dissoluzione del cosiddetto «Memorandum di Soci», cioè l’accordo che era stato raggiunto da Russia e Turchia nel settembre dell’anno precedente.
Esso prevedeva tra l’altro la de-militarizzazione dell’area, la separazione delle milizie lealiste che appoggiavano l’esercito di al-Assad da quelle filo-turche e il disarmo di queste ultime.
L’accordo avrebbe dovuto scongiurare l’attacco su larga scala su quello specifico settore del fronte minacciato dal governo di Damasco, determinato a ripulire la regione dalla presenza di formazioni a lui ribelli, offensiva – sia pure in tono minore – avviata col sostegno di Mosca dalla fine dell’aprile precedente.
Infatti, nonostante la prevista de-militarizzazione, in questo settore i combattimenti erano proseguiti provocando migliaia di vittime sia tra i belligeranti che tra la popolazione civile.
Obiettivo dei siro-russi era la bonifica delle zone a ridosso degli strategici assi viari che pongono in collegamento la costa (soprattutto la città portuale di Latakia) con Aleppo e, quindi, la Siria nordorientale e l’Iraq. Inoltre, la riconquista dell’intera provincia di Idlib avrebbe allontanato le basi militari russe in Siria situate presso Tartus dalla portata degli attacchi dei miliziani di Hayat Tahrir al-Sham.
Era una fase nella quale la presenza militare turca in loco era ancora “limitata” a dodici postazioni di osservazione, tuttavia, le forze armate di Ankara non erano state in grado di attuare loro questa separazione, continuando – al contrario – a supportare quelle arabo-sunnite “moderate” sue alleate, attive anche nella provincia di Afrin e nel triangolo di al-Bab, che era stato liberato dalla presenza degli jihadisti di Islamic State attraverso l’operazione “Scudo dell’Eufrate”.
Nella zona di Idlib – che era divenuta sostanzialmente un’enclave –, oltre ai miliziani jihadisti orfani del “califfato” o appartenenti ad altre formazioni combattenti, c’erano anche più di tre milioni di civili, dei quali almeno il 40% profughi provenienti da altri territori in precedenza controllati dall’opposizione siriana.
Le migliaia di appartenenti alle bande armate, sia “moderate” che di matrice jihadista, si trovarono di fatto intrappolati poiché privi di una via di fuga, in quanto a nordovest c’era la frontiera con la Turchia, mentre a sudest e sudovest il territorio era controllato dalle forze di al-Assad.
Il gruppo allora dominante era Hayat Tahrir al-Sham, che aveva preso il sopravvento su tutte le altre formazioni e i gruppi armati, mentre col concentrarsi di jihadisti nell’area, l’enclave divenne l’area dove si registrava la maggiore presenza al mondo di elementi in qualche modo riconducibili ad al-Qaeda, una potenziale incubatrice di pericolosi fenomeni terroristici.
Erdoğan voleva porre sotto il suo diretto controllo la regione ri-dislocandoci le milizie locali sue alleate, questo allo scopo di trasferirvi successivamente una cospicua parte dei profughi siriani che avevano trovato rifugio in Turchia.
Furono giorni di polemiche, durante i quali il cardinale Parolin tentò di accreditare una interpretazione univoca di alcuni aspetti relativi alla posizione assunta dalla Santa Sede, ricordando come oltre Tevere fossero state raccolte le «tante voci di inquietudine» sulla «possibile emergenza umanitaria» nella provincia di Idlib, dove si stavano raccogliendo i ribelli in armi, in massima parte jihadisti, che si opponevano al governo di Damasco.
«Noi volevamo intervenire in quel senso – aveva affermato il segretario di Stato vaticano – e non si poteva farlo se non passando attraverso chi attualmente detiene ancora l’autorità del potere in Siria».
Dal canto suo, il cardinale Mario Zenari (nunzio apostolico in Siria) sottolineò che: «La lettera ha un valore umanitario e la vicinanza alle sofferenze della popolazione civile, in particolare della popolazione nella provincia di Idlib. Se i combattimenti non cessano, c’è il rischio di una catastrofe umanitaria di proporzioni enormi, nella regione ci sono circa tremila civili».
Il prelato non nascose la preoccupante situazione in atto, lamentando
«la mancanza di una parola a favore dei cristiani soggetti alle violenze dei jihadisti nella città», soltanto una settimana prima una professoressa cristiana era stata violentata e poi lapidata dagli estremisti islamisti.
Egli, comunque, ebbe tra l’altro modo di rassicurare anche riguardo al futuro del progetto Ospedali aperti, concepito allo scopo di mantenere aperti tre presidi sanitari nel Paese sconvolto dal perdurante conflitto, un’iniziativa che si aggiungeva all’incessante lavoro svolto in Siria dalle congregazioni religiose cristiano-cattoliche presenti sul territorio (gesuiti, francescani e salesiani), nonché da tutti gli istituti femminili.
di seguito è disponibile il video dell’intervista integrale tradotta in italiano fatta dall’ex presidente della Rai Monica Maggioni al presidente siriano Bashar al-Assad, ripresa da Pandora TV, le voci fuori campo sono di Massimo Mazzucco e Margherita Furlan