Come evolve la minaccia terroristica in Italia? Quanto ancora potrà durare in questo Paese il “ritardo” nella radicalizzazione dei potenziali militanti islamisti rispetto ai trend registrati negli altri Stati europei interessati dal fenomeno? Esiste un modello italiano di prevenzione e contrasto del terrorismo jihadista?
Tutte domande alle quali è possibile fornire una risposta, tuttavia, per comprendere meglio i termini del problema è necessario fare riferimento ad alcune cifre.
Intanto è utile tracciare un profilo medio del jihadista attivo in Italia.
Sono persone di età dai diciotto ai trenta anni, sia di genere maschile che femminile, prevalentemente immigrati di prima o seconda generazione, anche se tra loro figurano degli autoctoni.
Spesso si tratta di de-islamizzati che riscoprono la propria religione in chiave politica, tuttavia ci sono anche persone convertitesi all’Islam sunnita.
Contrariamente a quanto si può essere portati a pensare – magari sulla scorta di paragoni con situazioni osservate in paesi esteri dove esistono corpose comunità di emarginati – nella storia personale di non pochi radicalizzati presenti in Italia non viene riscontrato un vissuto di disagio sociale, poiché spesso a essere coinvolta è la classe media, soprattutto tra i convertiti e le donne che abbracciano il jihad.
E questo è un primo fondamentale assunto: la deprivazione e l’emarginazione sociale in Italia non rivestono una esclusiva e determinante funzione propulsiva nella radicalizzazione dei soggetti, una tendenza, per altro, in via di progressivo consolidamento anche nel resto dell’Europa.
Veniamo ora al fenomeno dei cosiddetti «foreign fighters», dei quali nel 2018 in Italia se ne è registrata la presenza di sole 135 unità, una cifra tutto sommato ridotta rispetto, ad esempio, ai circa 2000 jihadisti registrati in Francia.
La ragione di questa marcata differenza va ricondotta alla maggiore debolezza che ha finora caratterizzato il fenomeno della radicalizzazione islamista in questo Paese, dovuta al ritardo nel manifestarsi delle migrazioni di massa, che ha fatto sì che qui non siano presenti quelle seconde e terze generazioni di immigrati a rischio sociale che invece popolano i quartieri degradati delle grandi città di altri paesi, come le banlieu francesi.
Negli anni Novanta al-Qaeda reclutò in Italia combattenti che poi inviò nei vari fronti di guerra nei quali erano allora impegnati i gruppi combattenti jihadisti. A quel tempo i luoghi fisici dove gli emissari di Usama bin Laden agganciavano i futuri foreign fighters erano prevalentemente le moschee e i centri culturali islamici.
Nel periodo intercorrente tra il 2014 e il 2015 venne registrato il “picco” di partenze dall’Italia di combattenti islamisti, la maggior parte di essi raggiunsero i fronti del jihad in Siria e Iraq, mentre una quota minore si unì alle formazioni che sotto la bandiera nera del “califfato” erano impegnate nella guerra civile libica.
Nel quadriennio 2014-2018 ne partirono poco più di 120, soprattutto immigrati della prima generazione che avevano un’età media relativamente più alta di quella dei loro fratelli proventi da altri Paesi europei, 30 anni contro una media di 22-24.
Nella loro massima parte si trattava di persone nate all’estero, con una percentuale pari all’8,8% di cittadini italiani, quota includente anche un significativo numero di convertiti; il 44% di loro risultava avere precedenti penali, il 22% era stato detenuto in carcere.
Al riguardo va sottolineato un fondamentale aspetto di natura psicologica che incide sul processo di radicalizzazione del soggetto, quello del rinvenimento nel jihadismo di un lavacro nel quale mondare le colpe pregresse derivanti da una vita disordinata segnata dal crimine. Non deve quindi stupire il fatto che non pochi foreign fighters siano dei pregiudicati per reati comuni, persone che rinvengono nella guerra santa e nel sacrificio supremo una forma di redenzione per il proprio passato.
Il 33% dei foreign figters partiti dall’Italia trovò la morte nel corso dei combattimenti, una percentuale molto elevata rispetto alla media europea.
La debellatio del “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi provocò poi il ritorno di numerosi reduci superstiti dai fronti del jihad, un aspetto ovviamente problematico per le strutture di sicurezza dei paesi di origine, trovatesi a dover monitorare una tale massa di soggetti a rischio.
Un’incombenza che ha investito anche quelle italiane, che però, fortunatamente, hanno dovuto affrontare una situazione relativamente più gestibile.
Per quanto concerne invece i cosiddetti «lupi solitari» – o lone wolf – è interessante affrontarne i profili dall’ottica della spinta vocazionale al martirio, poiché essa risulta di fondamentale importanza nell’azione di contrasto preventivo del fenomeno terroristico jihadista.
Infatti, in questi casi l’intervento per avere elevate probabilità di successo deve essere effettuato nella fase stessa del processo di radicalizzazione del soggetto.
A tal fine è necessario l’accertamento dell’origine della spinta vocazionale, cioè se essa sia riconducibile a una maturazione interiore di natura religiosa oppure politica.
La differenza rileva sul piano della forza (o, al contrario, della debolezza) nella determinazione del compimento dell’azione e, fattore di importanza fondamentale, nella tempistica di essa.
Ai diversi substrati ideologici che risiedono alla base dell’azione terroristica corrispondono infatti diversi profili della minaccia, che conseguentemente connaturano in modo specifico la condotta del terrorista.
Il radicalizzato “politico” che abbraccia solo successivamente l’Islam vede coincidere il proprio punto di partenza con quello di arrivo, cioè la sua azione diviene la ragione stessa di esistenza. La conseguenza di questo processo psicologico è quella che egli agirà in tempi più ridotti tra la fase di inizio della sua radicalizzazione e quella dell’azione.
Al contrario, un radicalizzato ispirato da logiche di natura religiosa sarà portato a elaborare in tempi relativamente più lunghi tesi estreme, generando in sé la sindrome del nemico, che condurrà il confronto alle estreme conseguenze. Una radicalizzazione dal portato ideologico fortissimo, dove l’azione costituisce il traguardo di un percorso lungo e laborioso, nel quale – per certi aspetti allo stesso modo dei terroristi marxisti leninisti degli anni Settanta – la rivendicazione dell’atto riveste addirittura maggiore importanza rispetto all’azione stessa.
Da tutto ciò si comprendono bene i vantaggi offerti nei termini della prevenzione e del contrasto del fenomeno terroristico dall’avere a che fare con soggetti del primo tipo, maggiormente aggredibili in ragione della loro debolezza ideologica rispetto a quelli il cui percorso ha invece preso avvio da un contesto strettamente religioso. (2 – continua)