I capi di stato e di governo della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) e quelli del G5 Sahel si sono recentemente fatti carico dell’impegno della raccolta di un miliardo di dollari allo scopo di finanziare le operazioni di contrasto de fenomeno terroristico islamista sempre più diffuso nelle forme della transfrontalierità nella regione saheliana.
Lo riferisce il periodico di informazione specializzato “Africa & Affari”, che ha riportato la notizia relativa alla decisione assunta al termine del vertice straordinario dell’Ecowas, che ha avuto luogo la settimana scorsa a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.
In quella sede i leader dei Paesi africani partecipanti hanno annunciato ufficialmente l’assunzione di una serie di misure volte a combattere il terrorismo, che dal Sahel va diffondendosi sempre di più anche nel Golfo di Guinea e in Africa Occidentale.
Nella stessa occasione il presidente nigerino Mahamadou Issoufou – attuale che presidente dell’Ecowas – ha avuto modo di chiarire che: «La conferenza ha adottato un piano d’azione e di mobilitazione delle risorse da circa un miliardo di dollari per la lotta al terrorismo».
Tali risorse dovranno venire allocate a copertura delle spese di equipaggiamento delle forze di difesa, sia nazionali che multinazionali, oltreché per rafforzare le strutture di intelligence.
Il G5 Sahel è anche (forse soprattutto) la conseguenza della sovraesposizione di Parigi negli impegni militari all’estero.
Parte dello strumento militare francese si trova ormai da anni impegnato nella regione saheliana in una e defatigante attività di tutela dei propri interessi nazionali.
Il contrasto del fenomeno terroristico islamista, il tentativo di contenimento dei flussi migratori transitanti per la regione a sud delle zone di imbarco nordafricane in Mediterraneo, il mantenimento in sicurezza degli approvvigionamenti di materie prime energetiche e dell’uranio necessario alle proprie centrali nucleari di elettrogenerazione, la salvaguardia degli scambi commerciali con le ex colonie, sono tutte ragioni che hanno indotto l’Eliseo all’intervento militare.
Iniziò Hollande, seguito poi da Sarkozy con la revisione degli accordi di difesa con alcuni Paesi africani e quindi da Macron, che impostò la sua nuova politica africana (o almeno nella componente francofona del continente) sulla base di un nuovo ciclo di partenariato.
Nel gennaio 2013 venne avviata l’operazione militare “Serval”, che, alla luce della sostanziale inconcludenza della missione dell’Onu Minusma, si pose l’obiettivo – da conseguire in tempi relativamente brevi – dell’annientamento dei gruppi armati jihadisti attivi nel Sahel e delle basi logistiche approntate da questi ultimi nel Mali.
Non fu un successo. Gli jihadisti, dimostratisi saldamente radicati nel territorio, non vollero addivenire a un accordo di pace col governo del Mali, mentre dal canto loro i francesi non furono in grado di ricostruirne l’esercito.
Intanto si andava deteriorando la situazione nella Libia del dopo-Gheddafi e seri problemi si riscontravano in Algeria e Mauritania, con una contestuale estensione dell’area di provenienza degli attacchi jihadisti, rendendo più insicure le regioni centrali maliane, quelle del confinante Burkina Faso e il Niger, minacciato dal dilagare di Boko Haram.
La successiva operazione “Barkhane”, avviata da Parigi nell’agosto 2014, sostituì la precedente missione Serval. I militari francesi si videro attribuite competenze a livello regionale, seppure le risorse conferite allo scopo (sia in termini di personale che di materiali) non corrispondessero pienamente alle necessità di una missione così delicata e difficile.
Una sproporzione nella proiezione della forza che costrinse il governo francese a ricercare forme di cooperazione negli attori locali.
Il cosiddetto G5 Sahel fu il tentativo di soluzione del problema. Un’aggregazione composta da Burkina Faso, Ciad, Mauritania, Mali e Niger che venne investita del compito della messa in sicurezza delle zone frontaliere ove insistevano i rifugi e i santuari degli elementi ostili, con la statuizione del «diritto di inseguimento» di questi ultimi sui territori degli stati confinanti.