SCIENZA, stampanti 3D. Le nuove frontiere del «bioprinting»

Pelle umana e tessuti ossei presto si potranno ottenere in laboratorio. All’ESA almeno lo sperano. Allo studio un sistema in grado di sopperire alla necessità degli astronauti di recare con loro nella navicella spaziale molto materiale sanitario durante le lunghe missioni interplanetarie. Un giorno lo si potrà utilizzare anche negli ospedali sulla Terra?

Anche se è ormai divenuto un luogo comune il fatto che attraverso le nuove stampanti 3D «si possa fare tutto», mai nessuno però, almeno fino a ora – eccettuati ovviamente gli autori dei romanzi di fantascienza -, si era avventurato nel preconizzare un impiego di queste sofisticate macchine connesse con i computer nel campo del bioprinting.

E invece è accaduto anche questo, poiché gli scienziati che lavorano a un progetto promosso dall’ESA, l’Agenzia spaziale europea, sono riusciti a produrre i primi campioni “bioprotetti” di pelle umana e ossa.

Il merito va attribuito agli studiosi della clinica universitaria della Dresda Technical University, che ha sede in Germania, istituto che è parte del consorzio che annovera anche OHB System AG, società attiva nel settore scientifico.

Un progetto concepito e sviluppato in funzione di una futura applicazione dei suoi risultati nel campo spaziale, ma che naturalmente potrà avere enormi benefiche ricadute in quello medico-sanitario.

Il concetto alla base è tutto sommato semplice e sorge dalla necessità, divenuta sempre più impellente con il progredire tecnologico delle navicelle spaziali, di dotare gli astronauti inviati in missioni interplanetarie di durata temporale sempre più lunga, di un’adeguata infermeria a bordo.

«Un viaggio su Marte o verso altre destinazioni interplanetarie imporrà agli equipaggi delle astronavi dei lunghi tempi di permanenza nello spazio, anche della durata di diversi anni», ha spiegato Tommaso Ghidini, supervisore del progetto in qualità di direttore della Divisione strutture, meccanismi e materiali dell’ESA, aggiungendo che «in questi casi gli equipaggi nel corso delle loro missioni correranno numerosi rischi, però portare al seguito tutto il materiale medico e sanitario necessario a fare fronte agli eventuali problemi di questa natura è impossibile dati gli spazi interni limitati degli attuali veicoli spaziali».

Invece, lo sviluppo di capacità bioprinting permetterà di rispondere alle emergenze di natura medica ogniqualvolta queste si presenteranno.

«Ad esempio – ha proseguito Ghidini -, nel caso delle ustioni una nuova pelle potrebbe venire “bioprintata” anziché innestata altrove nel corpo di un’astronauta, evitando così danni derivanti all’uomo, che altrimenti non potrebbero facilmente guarire in un ambiente orbitale».

Il principio informatore è “fare di più con meno risorse” allo scopo di far funzionare le cose in ambienti critici del genere attraverso l’ottimizzazione e la miniaturizzazione delle tecnologie.

Le cellule della pelle possono venire bioprotette mediante il ricorso al plasma umano, che viene utilizzato come un bio-inchiostro ricco di elementi nutritivi. Però il plasma ha una consistenza estremamente fluida che ne rende difficoltosa la lavorazione in condizioni gravitazionali alterate.

A questo scopo gli scienziati che si sono applicati al progetto hanno elaborato una formula in grado di modificarlo mediante l’aggiunta di metilcellulosio e alginato, che sono in grado di incrementare la viscosità del substrato. Si tratta di sostanze ricavabili rispettivamente da piante e alghe, dunque un rimedio potenzialmente alla portata di un equipaggio di una spedizione spaziale autonoma.

La produzione del campione di tessuto osseo ha comportato la «stampa» di cellule staminali umane aventi una composizione di bio-inchiostro simile, alle quali è stato aggiunto un cementante osseo a base di fosfato di calcio che ha avuto la funzione di materiale di supporto strutturale, successivamente assorbito nel corso della fase di crescita.

Allo scopo di fornire una dimostrazione di una efficace trasmissibilità nello spazio della tecnica di biostampa, la lavorazione di entrambi i campioni (pelle e ossa) è avvenuta in una condizione di capovolgimento e in prolungata assenza di peso.

I campioni ottenuti costituiscono il primo passo nella direzione di una pratica e diffusa attività di bioprinting 3D, mentre nella fase immediatamente successiva – quella attuale – è previsto che vengano esaminate le strutture di bordo da installare all’interno di una navicella spaziale, come sale chirurgiche e attrezzature dedicate, ambienti sterili e laboratori dove realizzare i complessi tessuti destinati ai trapianti e, col progresso della tecnologia, addirittura anche la «stampa» di interi organi interni.

Nella totalità dei casi, il materiale bioprinted verrebbe originato dal corpo dell’astronauta stesso, con evidenti vantaggi nei termini dell’assenza di problematiche generate dal rigetto dell’organo trapiantato da parte dell’organismo ospite.

Il progetto 3D Printing of Living Tissue for Space Esploration è in fase di sviluppo da parte della branca Discovery and Preparation dell’ESA Basic Activities, che come accennato, opera nell’ambito del consorzio che vede quale prime contractor la OHB System AG.

È evidente che un risultato del genere avrebbe dei riflessi straordinari, soprattutto nella prospettiva di una sua futura diffusa applicazione sulla Terra nel campo della medicina e della chirurgia.

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