AFRICA, conflitti. Il grande campo di battaglia

Privatizzazione della guerra, distruzione dello stato unitario e proliferazione di soggetti armati autonomi stanno diventando un modus operandi generalizzato. Questo accade in un continente nel quale è in atto una esplosiva crescita demografica, conteso per le sue risorse naturali e attratto dal benessere europeo. L’argomento è stato affrontato dal professor Mario Giro

a cura di Mario Giro, docente di Politica internazionale, esponente della Comunità di Sant’Egidio e già viceministro degli Affari esteri con delega alla Cooperaazione internazionale; fondo pubblicato il 18 ottobre 2024 da “Plurǎlia Opinions”, https://pluralia.forumverona.com/o/africa-grande-campo-di-battaglia/ – Oltre cinquanta milioni di africani si spostano a causa dei conflitti. Più di sette milioni di sfollati dai due Kivu in stato di guerra endemica con oltre cento milizie. Forse oltre nove milioni dal Sudan, uno stato fallito e spezzato dalla guerra civile, la cui capitale Khartoum ha già perso metà della popolazione.

ESODI DI MASSA FORZATI

Non si riescono più a contare quanti si stiano trasferendo dentro l’Etiopia (l’anno scorso erano già oltre tre milioni) a causa delle varie guerre interne come quella in Tigray, nella regione degli afar e ora nel Volkeit amhara; in Oromia e nell’Ogaden. Poi ci sono i profughi sud-sudanesi in un paese che non trova pace fin dalla sua indipendenza del 2011, forse oltre quattro milioni. Nel Sahel oltre due milioni di burkinabé fuggono la violenza jihadista; in Mali per lo stesso motivo si sono mossi almeno in settecentomila, in Niger la metà. Nella regione nord orientale della Nigeria fino al lago Ciad, quella che viene chiamata la zona delle quattro frontiere (Nigeria, Ciad,  Camerun e Niger), le atrocità dei Boko Haram hanno provocato la fuga di almeno quattro milioni di persone. La loro guerra è divenuta un modello anche per le reti criminali: in tutta la Nigeria settentrionale va di moda il sequestro di studentesse e studenti dalle scuole, che vengono rilasciati in cambio di denaro. Così molti si dirigono verso le regioni meridionali ma le giovani generazioni settentrionali perdono in questo modo preziosi anni scolastici. Nel nord del Mozambico l’attacco jihadista ha fatto fuggire verso sud circa ottocentomila persone. mentre in Somalia un antico conflitto ha dislocato almeno cinque milioni di somali lontano dalle proprie case.

CONSEGUENZE DELLE GUERRE IN AFRICA

Vi sono anche altre situazioni di crisi (vecchie e nuove) come il Sinai ai confini col Medio Oriente; il Burundi; l’ex Sahara spagnolo e la Libia, dove molti africani che vi risiedevano sono stati cacciati dopo la caduta di Gheddafi, assieme a numerosi tunisini e agli stessi libici. Buona parte della classe media tripolina si era rifugiata in massa a Tunisi (fra i trecentomila e i cinquecentomila, si stima) prima di riparare altrove a causa dell’instabilità che ha colpito anche lì. Tale è il drammatico quadro delle conseguenze belliche in Africa oggi: un popolo dolente di profughi in continuo movimento e alla ricerca di una via di uscita da situazioni invivibili. Secondo l’African centre for Strategic Studies (vicino al ministero della difesa americano), la tendenza all’aumento del numero degli sfollati (internally displaced persons o IDP) è stabile dal 2011, circa un anno prima che iniziasse l’ultima crisi degli sbarchi a Lampedusa e sulle coste italiane e, successivamente, greche, cipriote e spagnole.

GUARDARE ALLO SCENARIO IN PROSPETTIVA

Dobbiamo guardare allo scenario complessivo in prospettiva: non tutti i rifugiati che giungono sulle nostre coste scappano dalla guerra ma è quest’ultima ad aprire varchi o a creare le condizioni giuste per trafficanti e altri passatori. Oggi si stimano quaranta milioni gli sfollati interni, rifugiati o richiedenti asilo africani: più del doppio rispetto al 2016. Un fattore di contenimento è che oltre i due terzi di costoro vagano ancora all’interno dei propri paesi, e la maggior parte vi rimarrà. Ma tanto basta per fare da detonatore all’emigrazione organizzata verso l’Europa. Da considerare anche il fatto che dei quindici paesi africani che generavano il maggior numero di sfollati nel 2023, quattordici erano in conflitto. Ovviamente non si tratta di conflitti tutti dello stesso tipo: se in Sudan c’è un’aperta guerra civile, quella strisciante del Kivu viene considerata in maniera molto diversa, come una guerra a bassa intensità che però è micidiale per i civili.

I CONFLITTI SUI MEDIA

Le due regioni del Kivu nord e sud, assieme alla confinante Ituri, sono attualmente il teatro di combattimenti endemici che rendono tutto il territorio insicuro. Vi opera un numero imprecisato di milizie (le stime variano tra cento e duecento) dedite al saccheggio e al “mestiere delle armi” per vivere. Ciò che approda sui media è solo lo scontro tra l’M23 foraggiato dal Ruanda e il governo di Kinshasa. È vero che tra i due paesi da tempo non corre buon sangue soprattutto a causa della predazione di terre rare di cui il Congo è ricco. Ad esempio Kigali è divenuta esportatrice di coltan e litio che non possiede ma riceve dai Kivu mediante le milizie alleate. Tuttavia il dato economico spiega la durata del conflitto piuttosto che la sua origine, legata alla cittadinanza e alla difficile convivenza tra etnie. Prima della colonizzazione le etnie nilotiche (come i tutsi e i banyamulenge ad esempio) e quelle bantu convivevano dentro un delicato sistema di bilanciamenti ed equilibri. Com’è accaduto ovunque, l’arrivo dei colonizzatori europei ha congelato una situazione abituata a assestarsi per approssimazioni successive, fissando le differenze e i confini etnici.

DISUGUAGLIANZE APPROFONDITE

Il risultato è stato l’approfondirsi delle diseguaglianze e l’aumento delle rigidità causate dell’impossibilità di adattamenti e correzioni. In tutta l’Africa imperi, regni e centri di potere precoloniali (salvo eccezioni come gli zulu) godevano di forme di arrangiamento tra gruppi flessibili e modificabili, come dimostra ad esempio il fatto che il confine tra etnie era poroso (tra huti e tutsi per esempio) o che gli imperi dell’Africa occidentale possedevano una tradizione di «capitali mobili». Anche le frontiere tra stati e regni non erano tracciate allo stesso modo che in Europa. La tradizione europea di ordinare, fissare, tracciare, sistematizzare ecc., venne recepita come un trauma profondo. Ovviamente in molti casi le etnie che vennero sul momento favorite all’arrivo del «bianchi» appoggiarono tali mutamenti che però, alla lunga, si riveleranno forieri di molte criticità. Ciò che è accaduto a est del Congo (poi Zaire e infine Repubblica Democratica del Congo, RDC) lo dimostra bene oggi: dare e togliere la cittadinanza, considerare autoctoni o forestieri interi pezzi di collettività locali, ha approfondito gli odi e il disperato tentativo di sopravvivere sulle medesime terre.

MANIPOLAZIONI DI CITTADINANZE ED ETNIE

Senza entrare in dettagli complessi, possiamo osservare che il genocidio del Ruanda del 1994 fu anche l’esito finale di tali manipolazioni politiche dei diritti di cittadinanza e delle etnie, che fece in un secondo momento da detonatore nel 1996 alla grande guerra in Congo, della quale l’attuale conflitto nei due Kivu non rappresenta che l’ultimo prolungamento. L’esistenza di tante milizie discende precisamente dal fatto che degli ultimi trenta anni, in quella vasta area, tutti si sono affrettati a creare una forma armata di autodifesa, che spesso poi è degenerata in criminalità o è diventata un vero e proprio modo di vivere. La domanda da farsi di fronte a fenomeni di questo tipo è per quanto tempo è possibile trascurarli prima che gli effetti giungano fino alla porta di casa nostra (e non solo in termini migratori). Un altro conflitto da tenere d’occhio è quello in Sudan, dove assistiamo alla scomparsa dello Stato. Inutile lamentare l’assenza dei diritti umani o della democrazia laddove lo Stato non esiste più: l’esempio libico dovrebbe fare scuola.

MOVIMENTI ARMATI E RETI CRIMINALI

In passato una guerriglia o un movimento di ribellione puntavano alla conquista dello Stato: se ci riuscivano si facevano Stato, com’è accaduto alla Frelimo in Mozambico, all’MPLA in Angola o ai movimenti di guerriglia liberiani o del Congo Brazzaville ad esempio. Quando al contrario diveniva impossibile scalzare chi deteneva il potere, alla fine si optava per un accomodamento politico se la guerra rischiava di persistere a lungo. Oggi è diverso: ogni movimento armato cerca di mantenere il controllo anche di solo un pezzo di territorio dove collegarsi alle reti (criminali o no) dell’economia globalizzata. Non si punta più a conquistare tutto lo stato: ci si accontenta di una parte purché si possa sfruttarne le risorse (legno, cacao, diamanti, oro, coltan ecc.). Rispetto al passato oggi è più facile esportare tali ricchezze privatamente e senza lo Stato. Nella frammentazione indotta dalla globalizzazione, interdipendenza o interconnessione non hanno bisogno di unità nazionale: si può restare connessi con le filiere internazionali anche senza effetti politici, smentendo così uno degli assiomi della mondializzazione stessa.

IL CASO SUDANESE

È ciò che sta accadendo in Sudan dove l’esercito sudanese (SAF) e la più grande delle milizie (RSF Rapid Support Forces creata dall’esercito stesso) si stanno combattendo per il controllo delle risorse del paese. È avvenuto un po’ come se la marionetta avesse tagliato i fili. Prima le RSF venivano utilizzate dal potere militare per reprimere il Darfur e le altre ribellioni regionali, fino al punto di farne un vero e proprio esercito parallelo. Ora costoro pretendono la loro parte. Il Sudan è divenuto preda di appetiti contrapposti, cadendo nel processo di frammentazione che ha già colpito Libia, Yemen e parzialmente anche l’Iraq, oltre che la Somalia trenta anni fa. La possibilità di privatizzare lo Stato e la sua sicurezza (milizie ma anche contractor e figure armate di ogni tipo) sta generalizzando modelli di conflitto inediti. In questo l’Africa ci offre degli esempi precursori. Privatizzazione della guerra, distruzione dello stato unitario e proliferazione di soggetti armati autonomi divengono un triste modello che si generalizza. Ciò che accade in Ucraina dovrebbe spingere a maggior modestia e a più profonda riflessione: i processi di frantumazione sono all’opera ovunque.

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