GIUSTIZIA, diritti e riforme. Legalizzazione dell’abuso e criminalizzazione del dissenso

L’attuale esecutivo al governo in Italia ha deciso che l’abuso dei pubblici poteri non debba più essere un reato e, al contempo, ha scelto di esasperare la repressione del dissenso e del disagio sociale, saltando a piedi giunti i valori della Costituzione della Repubblica

a cura del professor avvocato Roberto De Vita, pubblicato su “De Vita Law” il 21 settembre 2024, https://www.devita.law/legalizzazione-abuso-criminalizzazione-dissenso/ La Costituzione della Repubblica italiana difende il dissenso e punisce l’abuso del potere pubblico e in questo risiede la concretezza della democrazia e dello Stato liberale. Tanto è vero che quando si misura la salute democratica di un Paese, non si considera solo il più o meno formale esercizio del voto, ma la effettiva protezione dei diritti dei cittadini dagli abusi del potere dei pubblici funzionari e la garanzia effettiva della libertà di manifestare, anche in modo aspro, contro il potere pubblico. Il Governo italiano ha deciso che l’abuso dei pubblici poteri non sia più reato e al contempo ha scelto di esasperare la repressione del dissenso e del disagio sociale, saltando a piedi giunti i valori della nostra Costituzione.

L’ABUSO DI POTERE NON È PIÙ REATO

La legge 9 agosto 2024, n. 114, all’art. 1, comma 1, lett. b (¹), con poche lapidarie parole, «l’articolo 323 è abrogato», ha rimosso l’irrinunciabile baricentro dei reati contro la Pubblica Amministrazione. La scelta dell’attuale legislatore determina un vulnus al nostro ordinamento penale rispetto ai principi costituzionali cristallizzati, in primo luogo, negli artt. 28 e 97 della Costituzione (²) (in particolare rispetto alla responsabilità dei pubblici funzionari per gli atti compiuti in violazione dei diritti e alla garanzia del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione), ma anche rispetto al principio di uguaglianza, al diritto di difesa e all’osservanza degli obblighi assunti dal nostro Paese in sede europea. Il reato di abuso d’ufficio, infatti, costituiva la massima espressione delle norme penali poste a presidio del corretto utilizzo del potere pubblico, che in un ordinamento democratico trova e deve trovare bilanciamento tanto nella divisione tra i poteri dello Stato, quanto nella limitazione degli stessi e delle possibili ricadute patologiche sui cittadini che quel potere non lo esercitano e vi sono invece sottoposti.

UNA NARRAZIONE NEGATIVA

La narrazione negativa che ha caratterizzato nel corso del tempo l’abuso d’ufficio è originata da distorsioni reali o potenziali nell’applicazione di una norma che è nata con un ambito di applicazione molto ampio e che, nel tempo, è stato progressivamente circoscritto per limitare la possibilità di contestazioni troppo facili e per arginare il tanto evocato rischio di generare la paralisi di apparati pubblici, ostaggio della nota «paura di firma». Nella comunicazione che ha accompagnato la proposta è stato anche sopravvalutato il dato delle numerose assoluzioni e archiviazioni a fronte del totale di procedimenti iscritti, impiegato per sostenere una presunta inutilità della fattispecie. Riportare, come è stato fatto, che nel 2021 su 5.418 procedimenti 4.465 si sono conclusi con archiviazione per ragioni diverse dalla prescrizione (³), è estremamente fuorviante: i dati pubblicati dal Ministero della Giustizia non riportano gli anni di iscrizione dei procedimenti e, dunque, non è possibile valutare quale sia stato il loro percorso e, soprattutto, quale fosse la formulazione dell’art. 323 c.p. vigente al momento dell’iscrizione.

RECENTE FORMULAZIONE DELLA NORMA

Infatti, il dato sull’esito dei procedimenti pendenti negli ultimi anni (che, per come riportato, si sarebbero conclusi quasi tutti senza una condanna) risente del passaggio dalla vecchia alla nuova disposizione, avvenuto solo nel 2020: è molto probabile (nonché logicamente evidente) che gran parte delle recenti assoluzioni e archiviazioni derivino dalla depenalizzazione di condotte estranee all’ultima formulazione della norma, che però erano state contestate in procedimenti iscritti prima della novella. E infatti, l’ultima formulazione della norma che è stata infine abrogata era particolarmente restrittiva, consentendo un assai limitato margine di manovra inquisitoria, punendo solo la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che «in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto».

QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

Si può ben notare come la norma abrogata non potesse in ogni caso prestarsi a rischi di abuso di discrezionalità interpretativa da parte dei magistrati, operando in un ambito così circoscritto, perimetro minimo per la doverosa rimproverabilità penale dell’agire del pubblico potere. Al contrario, la fattispecie dell’art. 323 c.p. si poneva quale punto limite e baluardo di tenuta tra potere pubblico legittimamente esercitato e garanzia per i cittadini da abusi dello stesso potere, consentendo pertanto il controllo giudiziario sull’operato del pubblico ufficiale, anche in assenza di componenti strettamente economiche. Altra critica è stata avanzata in chiave di legittimità costituzionale dalla Procura di Reggio Emilia nel tristemente famoso processo per i fatti di Bibbiano (⁴), che ha avanzato al Tribunale istanza di rimessione alla Consulta per violazione degli artt. 3, 24, 97 e 117 della Costituzione. E infatti, si è rilevato come l’abrogazione dell’abuso d’ufficio sia lesiva del principio di uguaglianza, non sovrapponendosi affatto all’ambito di applicazione di altre norme ancora presenti nel codice penale (come sostenuto dai fautori dell’abrogazione), bensì costituendo un irrinunciabile elemento strutturale di sistema, senza il quale si dà luogo ad una irragionevole lacuna, una diversità di trattamento di condotte sostanzialmente affini per offensività, nonché una violazione degli obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese.

IL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA

Per quanto riguarda il principio di uguaglianza, ex art. 3 della Costituzione (⁵), è immediatamente evidente la mancanza di ragionevolezza di questa abrogazione nel momento in cui sopravvive il reato di rifiuto e omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 c.p., che punisce «il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo». Laddove l’omissione o il rifiuto fossero determinati dal fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di arrecare ad altri un danno ingiusto, la condotta sarebbe rientrata nell’alveo di applicazione del più grave art. 323 c.p.. Di conseguenza, di due condotte affini viene elisa quella di maggior disvalore. Al tempo stesso, mentre l’indebito rifiuto od omissione di un atto di ufficio viene ancora sanzionato, la commissione indebita di un atto d’ufficio contrario a specifiche regole di condotta è invece diventata penalmente irrilevante.

LA SCELTA

Simile ragionamento viene in luce rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 353 e 353 bis c.p. (rispettivamente la turbata libertà degli incanti e la turbata libertà di scelta del contraente) (⁶). Entrambe le norme tutelano la libertà delle procedure di scelta, la prima intervenendo a valle dell’inizio della gara (proteggendo le distorsioni in sede di applicazione dei bandi) e la seconda a monte, quando avvengono le manipolazioni per la realizzazione di bandi personalizzati. Nel momento in cui un bando non vi sia o non vi debba essere (da una procedura interna a una contrattazione privata in ambito di affidamento diretto) non vi sarebbe alcuna tutela nei confronti dell’abuso del potere del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio nelle modalità di scelta del proprio contraente, in spregio, ad esempio, delle norme da cui non residuano margini di discrezionalità presenti all’interno del Codice degli appalti. Per di più, rispetto al citato art. 97 della Costituzione, la rimozione di una tutela penale in relazione a condotte abusive e prevaricatrici del pubblico ufficiale lascerebbe al privato danneggiato (e solo laddove ce ne sia uno) solo rimedi in sede giurisdizionale amministrativa.

ELEMENTI DI VULNERABILITÀ

Altro elemento di vulnerabilità non secondario, come accennato, è rappresentato dalla peculiare caratteristica dell’abuso d’ufficio, che era l’unica norma che proteggeva il cittadino dal comportamento deviante del funzionario a prescindere dalla presenza del dato economico. Verrebbe così limitato il diritto di difesa del privato (ex art. 24 della Costituzione) (⁷), che non potrebbe più far valere, a fronte di condotte connotate da un forte disvalore (altrimenti sanzionate in presenza di vantaggi o danni di carattere economico), i propri diritti e interessi legittimi. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, per di più, contrasta con gli obblighi assunti dall’Italia in ambito internazionale e, di conseguenza, con il dettato dell’art. 117 della Costituzione. (⁸) Su questo punto, sulla base della giurisprudenza della Corte Costituzionale (⁹), vi sarebbero ben pochi ostacoli ad un intervento in malam partem con effetti riespansivi della norma abrogata. Il nostro Paese, infatti, ha ratificato la Convenzione di Merida delle Nazioni Unite (del 2003) contro la corruzione, ed in particolare ha assunto l’obbligo di adoperarsi «conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse». (¹⁰)

OBBLIGHI INTERNAZIONALI ASSUNTI DALL’ITALIA

Già questo sarebbe sufficiente a ravvisare un contrasto insanabile con l’ultima abrogazione, ma vi è di più, perché all’art. 19 della legge di ratifica, rubricato «abuso d’ufficio», viene riportato l’impegno ad esaminare «l’adozione delle misure legislative  e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità». Da ultimo poi, nel 2022, l’abuso d’ufficio era stato inserito all’interno dei reati contemplati dall’art. 322 bis c.p., con il quale vengono estese numerose fattispecie contro la pubblica amministrazione a membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri. (¹¹) E ciò al fine di attuare la direttiva UE 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale; (¹²)  ritenendo, quindi, che fosse necessario estendere a tale obbligo assunto in sede europea la tutela offerta dall’art. 323 c.p., che all’interno dell’art. 322 bis c.p. è ora stato sostituito dall’art. 314 bis c.p. (indebita destinazione di denaro o cose mobili, c.d. peculato per distrazione), di minore ambito di applicazione e la cui condotta, prima della sua reintroduzione espressa nel Codice penale, era sanzionabile proprio attraverso la norma dell’abuso d’ufficio.

PROSPETTIVE FUTURE

In prospettiva futura, peraltro, si porrà un problema anche con la proposta di direttiva europea «sulla lotta contro la corruzione, che sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio». (¹³) Al Considerando n. 13, infatti, la proposta rileva che «occorre inoltre definire il reato di abuso di ufficio nel settore pubblico come omissione di un atto da parte di un funzionario pubblico, in violazione della legge, al fine di ottenere un indebito vantaggio. Per combattere in modo globale la corruzione, la presente direttiva dovrebbe contemplare anche l’abuso di ufficio nel settore privato». A seguire, il testo prevede un articolo specifico rubricato «abuso d’ufficio» che impone agli Stati membri di punire, se intenzionale, «l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo – nonché – l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo».

LA PROPOSTA EUROPEA

Al momento della redazione della proposta, tra l’altro, è emerso che i venticinque Stati che hanno partecipato a essa (Danimarca e Bulgaria i membri assenti) prevedevano già il reato di abuso di ufficio nei propri ordinamenti. Infine, la Relazione sullo Stato di diritto 2024 della Commissione Europea (¹⁴), in risposta alle argomentazioni italiane favorevoli all’abrogazione dell’art. 323 c.p., ha affermato che «la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze illecite è prevista dalle convenzioni internazionali sulla corruzione ed è quindi uno strumento essenziale per le autorità di contrasto e le procure ai fini della lotta contro la corruzione. I portatori di interessi hanno osservato che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio potrebbe comportare una diminuzione dei livelli di rilevamento e investigazione della frode e della corruzione».

REPRESSIONE DEL DISSENSO

Al contempo, mentre il legislatore si preoccupa della “paralisi del potere”, con l’ultimo provvedimento sulla sicurezza approvato dalla Camera e all’esame del Senato (DDL n. AC 1660-A)(¹⁵), si assiste alla esasperazione della criminalizzazione delle forme di espressione del dissenso nei confronti di quello stesso potere. E infatti, il racconto del rischio di panpenalismo come giustificazione per espungere l’abuso d’ufficio dal nostro ordinamento, si pone in netto contrasto con il costante allargamento dell’orbita penale in materia di manifestazione del dissenso e del disagio sociale. In particolare, le nuove disposizioni in materia di sicurezza urbana reprimono con inusuale dettaglio e pervicacia un insieme di fattispecie, introducono, aggravano e anticipano la punibilità di molte condotte riconducibili a modalità di espressione del dissenso: occupazione simbolica di suolo pubblico, intralcio alla libera circolazione su strada, inasprimento delle sanzioni in materia di resistenza a pubblico ufficiale, deturpamento di edifici pubblici «con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione», l’introduzione del reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario e la pari disciplina rispetto alle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, dove ogni forma anche passiva di disobbedienza viene considerata rivolta.

IL RISCHIO DI UNA DERIVA PANPENALISTA

Leggendo il testo del disegno di legge, sembra di poter visualizzare, come in un film in stop-motion, tutti i casi di cronaca degli ultimi anni che hanno evidenziato dei disagi sociali e delle spinte di dissenso di varia natura. Tali disagi, anziché essere destinatari di una gestione oculata orientata all’esame delle cause e a una lucida visione del futuro, vengono così affrontati con la reazione repressiva, scomposta e quasi stizzita del potere assoluto e indiscutibile. Lo stesso potere che, a quanto pare, non ritiene di essere meritevole di un controllo e di un limite di carattere giudiziario (il reato di abuso d’ufficio) al proprio agire. Dunque, da un lato il potere viene sciolto da legacci per sentirsi più libero di fare e viene sottratto ai cittadini uno strumento per contrastarne l’abuso, dall’altro gli stessi cittadini vengono scoraggiati dall’esprimere forme di opposizione nei confronti del potere, aumentando il rischio di veder ricadere più facilmente (e più severamente) la propria condotta nel bacino del penalmente rilevante: legalizzazione dell’abuso e criminalizzazione del dissenso.

RIFERIMENTI

(¹) https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2024/08/10/24G00122/SG

(²) Art. 28: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».

Art. 97: «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

(³) Cfr. tra i vari, F. Boschi, Abuso d’ufficio, i numeri di un reato che non regge, Il Giornale, 13.01.2023; C. Guasco, Riforma Giustizia, per l’abuso d’ufficio 80% di archiviazioni. Appelli da dimezzare, Il Messaggero, 18.06.2023.

(⁴) Leggi la memoria depositata dalla Procura di Reggio Emilia.

(⁵) Art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

(⁶) Art. 353 c.p.: «Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontanagli offerenti, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032.

Se il colpevole è persona preposta dalla legge o dall’Autorità agli incanti o alle licitazioni suddette, la reclusione è da uno a cinque anni e la multa da euro 516 a euro 2.065.

Le pene stabilite in questo articolo si applicano anche nel caso di licitazioni private per conto di privati, dirette da un pubblico ufficiale o da persona legalmente autorizzata; ma sono ridotte alla metà».

Art. 353 bis c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente(2) al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032».

(⁷) Art. 24: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

(⁸) Art. 117: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (…)»

(⁹) Corte Cost. n. 8 del 18.01.2022; Corte Cost. n. 37 del 06.03.2019.

(¹⁰) Cfr. Legge 116/2009 – Ratifica Convenzione di Merida.

(¹¹) Art. 322 bis c.p.: «Le disposizioni degli articoli 314, 314 bis, 316, da 317 a 320 e 322, terzo e quarto comma, si applicano anche: 1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee; 2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee; 3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee; 4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee; 5) a coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio; 5 bis) ai giudici, al procuratore, ai procuratori aggiunti, ai funzionari e agli agenti della Corte penale internazionale, alle persone comandate dagli Stati parte del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale le quali esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti della Corte stessa, ai membri ed agli addetti a enti costituiti sulla base del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale. 5 ter) alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di organizzazioni pubbliche internazionali; 5 quater) ai membri delle assemblee parlamentari internazionali o di un’organizzazione internazionale o sovranazionale e ai giudici e funzionari delle corti internazionali. 5 quinquies) alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di Stati non appartenenti all’Unione europea, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione.

Le disposizioni degli articoli 319 quater, secondo comma, 321 e 322, primo e secondo comma, si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso: 1) alle persone indicate nel primo comma del presente articolo; 2) a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali.

Le persone indicate nel primo comma sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi».

(¹²) Direttiva (UE) n. 2017/1371.

(¹³) Proposta n. COM/2023/234 final.

(¹⁴) Cfr., in particolare, Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto in Italia.

(¹⁵) Cfr. Testo del disegno di legge e Lavori preparatori del disegno di legge.

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