ANALISI, tensioni Iran-Usa. Teheran teme Washington e si affida sempre più alle armi di Mosca

Le pressioni statunitensi, accentuatesi con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, portano la teocrazia a elaborare strategie di lungo termine. Al primo punto il rafforzamento delle proprie difese nei confronti delle minacce americane, un aspetto che però comporta una maggiore cooperazione militare con i russi. Le esercitazioni navali congiunte nel Golfo Persico.

È la conseguenza della politica aggressiva dell’amministrazione americana attualmente in carica, che non perde occasione per lanciarsi – in diversa misura e con diversi strumenti a seconda dei casi e degli sviluppi delle situazioni – nello scontro politico, economico e militare.

Consigliato da John Bolton (del quale lo stesso tychoon starebbe iniziando ad averne abbastanza) Iran, Cina Popolare, Venezuela e, ancora, dazi annunciati contro Airbus che colpiscono i prodotti di mezza Europa, questo con il dossier nucleare nordcoreano tuttora aperto.

I risultati di questa politica “assertiva” non si sono fatti attendere, infatti Mosca e Teheran sembrerebbero orientarsi nella direzione del rafforzamento della reciproca cooperazione nel settore della difesa. Lo confermerebbe, tra l’altro, l’annuncio del comandante in capo della marina militare iraniana, ammiraglio Hossein Khanzadi, relativo alla pianificazione in atto di un’esercitazione navale congiunta con la Russia nelle acque del Golfo Persico.

Mosca nei mari caldi dunque, in quello che dai tempi della presidenza Carter – dopo decenni di “appalto” della funzione di controllo al gendarme dell’epoca, lo shah di Persia – era un sostanziale dominio statunitense.

Tuttavia, se non rappresenta certo una novità il fatto che le marine iraniana e russa conducano esercitazioni congiunte (infatti i precedenti non mancano, e risalgono al 2015 e al 2017 nel Mar Caspio), la relativa novità deriva dagli sviluppi della situazione nel particolare teatro strategico. La risposta sarebbe alla complessa esercitazione aeronavale congiunta tra le tre grandi potenze alleate (e titolari di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu), cioè Usa, Gran Bretagna e Francia, nota come “Artemis Trident 2019”, che ha recentemente avuto luogo nelle acque del Golfo Persico.

Ufficialmente improntata alla verifica e alla implementazione dell’interoperabilità tra US Navy (partecipava la V Flotta), Royal Navy e Marine nationale, l’esercitazione ha avuto quale tema principale anche l’attività contromisure mine, un tema non estraneo alle storiche (seppure di non sicura totale messa in pratica) minacce di blocco degli Stretti di Hormuz.

A questo si aggiunga l’embargo americano all’Iran e, ciliegina sulla torta, l’inserimento dei pasdaran (il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione) nella lista nera delle organizzazioni terroristiche internazionali compilata da Washington.

Ma non solo, l’amministrazione Trump (non sappiamo quanto il Pentagono sia del tutto d’accordo) cerca di strozzare la repubblica islamica per condurre il Paese a un regime change, infatti a questa logica risponde la stretta alle esportazioni di materie prime energetiche iraniane sui mercati mondiali.

Poi c’è l’attivismo sfrenato a sostegno degli alleati del Golfo, sauditi in testa, mediante appoggi politici e ingenti forniture di sofisticati sistemi d’arma (F-35 inclusi) anche a omaniti ed emiratini. Attraverso Riyadh – partner a volte impresentabile e avversario degli ayatollah – la Casa Bianca intende costituire una sorta di “Nato araba” nel Medio Oriente allargato.

Insomma, Washington sta rafforzando la sua presenza militare nella regione e, dopo aver esperito l’intero spettro di misure di natura politica e ed economica per colpire l’Iran, potrebbe spingere il confronto a un livello superiore, alla soglia del conflitto militare.

Tuttavia, come accennato, al Pentagono non tutti i generali dello stato maggiore sono in sintonia con «The Donald». Non lo sono riguardo a un’eventuale impegno contro i bolivariani di Caracas, figuriamoci con un nemico coriaceo come la Repubblica islamica iraniana.

Quindi per il momento dalla Sala ovale il grande capo di deve limitare ai tweet, certamente dannosi anche quelli, comunque meno di un attacco vero e proprio.

Già, poiché nel frattempo il presidente iraniano Hassan Rouhani ha (almeno per il momento) messo da parte la linea cosiddetta della «pazienza strategica», col suo corollario di impegni volontariamente assunti nel quadro del piano d’azione globale congiunto (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA), questo mentre il fine negoziatore e ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif paventava addirittura il ritiro iraniano dal Trattato di non proliferazione nucleare.

È oltremodo evidente che il ritiro unilaterale di Trump dal JCPOA ha reso più insicuri e meno fiduciosi gli iraniani riguardo ai tavoli negoziali internazionali, men che meno poi in quella residuale fino a quel momento riposta negli americani.

In questo quadro non stupisce che i settori più oltranzisti di Teheran, sia religiosi che militari (come la Guida suprema Khamenei e il comandante della Forza Quds Qasem Soleimani) riprendano vigore politico e propagandistico nella dialettica interna al Paese.

L’Iran ha saputo dimostrare di reggere a otto anni di guerra sanguinosa (quella scatenata dall’Iraq di Saddam) e a un embargo economico di lunga durata. A fronte degli ultimi sviluppo i vertici della Repubblica islamica continuano nella resistenza sui piani economico e politico, lavorando ai fianchi per mezzo della loro intelligence e degli alleati regionali, tuttavia nulla esclude che l’opzione del rafforzamento militare, seppure economicamente oneroso, venga percorsa ricorrendo al sostegno di Vladimir Putin.

Col Cremlino, infatti, è esplorabile l’ipotesi della «strategia di difesa aggressiva», che implementerebbe le attuali forme di collaborazione in campo militare tra i due Paesi.

Al riguardo va ricordato che i velivoli russi utilizzano da tempo la base aerea dell’IRIAF Mhammad Nojeh, sita presso la località di Kabudarahang, a circa cinquanta chilometri dalla città di Hamadan, nel nord del Paese. Inoltre, le forze aeree e missilistiche di Mosca hanno accesso allo spazio aereo iraniano in funzione delle operazioni militari condotte in Siria.

Qui torna il Golfo Persico, gli agognati “mari caldi” divenuti alla portata dei velivoli di Mosca ai tempi del conflitto afgano del 1979. Ma la Russia di oggi non è un’Unione sovietica “più piccola” e di questo l’ex ufficiale del Kgb di stanza a Dresda divenuto presidente ne ha piena consapevolezza.

Ma, allora, cosa significa davvero questo rilancio della cooperazione con gli ayatollah? È (anche) una “spudorata” manifestazione di potenza, che dopo i sostanziali successi ottenuti in Siria il Cremlino pone in essere allo scopo di irrobustirsi in vista di future eventuali contrattazioni con Washington.

Teheran al momento può fare affidamento quasi esclusivamente sui russi per rifornirsi di armi, questo malgrado la Risoluzione Onu 2231, un divieto che potrebbe però venire, se non revocato, almeno ridotto nel prossimo futuro.

L’incremento della cooperazione in campo militare sembra dunque inevitabile, malgrado nei vertici iraniani alberghi pur sempre una certa diffidenza riguardo a un matrimonio indissolubile con l’alleato russo. Cautela dunque, ma nel quadro di una cooperazione il più possibile rispondente agli orientamenti strategici della Repubblica islamica, con la postilla che mai – qualora disgraziatamente accadesse – Mosca si farebbe trascinare nel pantano di un conflitto tra gli l’Iran e gli Usa.

In fin dei conti, un forte pragmatismo sia il Cremlino che l’Armata russa lo hanno dimostrato nel corso della “guerra civile” siriana, quando, in un (ufficialmente tacito) patto di desistenza con gli israeliani e gli occidentali hanno evitato di coinvolgersi nei bombardamenti missilistici e aerei contro le installazioni di Assad e dei suoi alleati iraniani.

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