Intanto è bene cercare di collocare temporalmente il peak della globalizzazione e l’inizio del suo declino o, meglio, della sua trasformazione, poiché da esso origina l’accentuazione dei processi di frammentazione geografica ed economica che hanno portato all’attuale situazione di sconquasso geopolitico. Al riguardo, due sono gli avvenimenti possibili, e di risulta anche le date, alle quali si suole ricondurre l’avvio della dinamica della cosiddetta «slowbalization»: l’ingresso della Repubblica Popolare cinese nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), oppure la grande crisi finanziaria prima e poi economica divampata nel 2008.
IL RITORNO DELLO STATO NELL’ECONOMIA
Sembra ieri, ma allora da allora tanta acqua è fluita sotto i ponti, e un concatenarsi di elementi ha fatto sì che nei maggiori paesi industrializzati dell’Occidente, Stati Uniti d’America in primis, lo Stato sia tornato a svolgere un preminente ruolo nell’economia. Per molti, formatisi in quell’età dell’oro liberista che aveva più o meno caratterizzato i decenni più recenti, poteva apparire come una bestemmia, ma così è stato, e a Washington nel triennio 2021-2023 l’amministrazione Biden ha varato tre massicci programmi di intervento pubblico che in termini di risorse stanziate ha superato il trilione di dollari. Lo scopo era quello di favorire la capacità produttiva industriale in alcuni settori strategici, quali quelli dei semiconduttori e delle energie rinnovabili, qualcosa, dunque, di riconducibile alle politiche ambientali.
SUCCEDE IL PATATRAC
Ma, quali erano le cause alla base di questa nuova politica economica? Diverse e co-agenti. La pandemia di Covid prima di tutto, che aveva messo a nudo le dipendenze strategiche di americani ed europei favorendo, appunto, un ripiegamento sulle proprie capacità; poi gli incombenti mutamenti climatici, che necessiterebbero di regolazioni normative di natura ambientale difficilmente compatibili con gli schemi propri del libero mercato e le aperture sullo scenario internazionale che erano state possibili in precedenza; infine i fattori geopolitici, con il sempre più aspro confronto tra gli Stati Uniti d’America e la Cina Popolare, con il conflitto in Ucraina che ha sparigliato tutto complicando oltremodo la situazione. La reazione necessitata è stata quindi quella del restringimento delle catene del valore in funzione della sicurezza nazionale, con inevitabili derive protezionistiche. Per giungere ai giorni nostri, l’Inflaction Reduction Act (IRA) varato dall’amministrazione Biden ha comportato l’erogazione di ingenti sussidi e l’introduzione di sgravi d’imposta a beneficio di tutte quelle imprese attive nei citati settori green e con stabilimenti negli Usa o in area Nafta, cioè in Canada o in Messico.
VASI DI ACCIAIO E VASI DI COCCIO
Si tratta di misure concepite in funzione anti-cinese (riduzione delle catene del valore e conseguente isolamento della Repubblica Popolare) e non mirate contro l’Europa, tuttavia hanno egualmente posto alle imprese del vecchio continente seri problemi di competitività, questo mentre Pechino malgrado la crisi è riuscita lo stesso a mantenere notevoli vantaggi competitivi in termini di costi di produzione. Quali potrebbero essere le risposte europee? Certamente non quelle di una guerra commerciale, allo stato attuale e dato il contesto circostante non ne avrebbe il fisico e comunque sarebbe controproducente. Ma allora che fare? Varare provvedimenti di respiro strutturale e procedere ad aiuti e a un fondo sovrano comune? È proprio qui che si annidano le criticità, poiché mentre per quanto concerne i sussidi e gli sgravi d’imposta il percorso si presenta meno difficoltoso, pur se potenzialmente lancinante per il mercato unico, riguardo a un possibile fondo sovrano europeo tutto si complica, a cominciare dal raggiungimento di compromessi sui finanziamenti e le finalità comuni, per arrivare a definire la caratteristica dell’erogazione, cioè se nelle forme del prestito oppure del fondo perduto.
IRA: PER L’EUROPA È FONTE DI RISCHI O DI OPPORTUNITÀ?
In ogni caso va da se che, anche soltanto un allentamento dei vincoli posti agli Stati membri dell’Unione europea nell’erogazione di aiuti finanziari alle proprie imprese nazionali, in un contesto nel quale paesi diversi dispongono di entità di risorse diverse potrebbe portare a una distorsione del mercato interno europeo, perché i Paesi membri che disporranno esigui spazi di manovra fiscale (come l’Italia) rimarranno penalizzati. Il ricorso a questa lunga prolusione è finalizzato all’introduzione alla tavola rotonda che ha avuto luogo lo scorso 13 novembre 2023 a Roma presso la sede dell’Istituto affari internazionali, che ha visto la partecipazione di alcuni economisti di vaglia, tra i quali il professor Daniel Gros, direttore dell’Institute for European Policymaking Università Bocconi, che ha illustrato il suo punto di vista sul tema, dicendosi convinto che l’IRA, pur comportando dei rischi per l’Europa, costituisce tuttavia anche un’opportunità.
GLI ARGOMENTI DEL PROFESSOR GROS
Egli concorda sul potenziale vulnus per il mercato unico derivante dall’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato e sulla concorrenza, cioè dall’intervento degli Stati nel finanziamento delle imprese del proprio paese. Inoltre sottolinea come gli americani siano arrivati a un provvedimento del genere, con sussidi nel campo delle rinnovabili, quando il processo in Europa era già avviato da tempo, oltreché alla luce dell’avanzamento della tecnologia in questi specifici settori (fotovoltaico ed eolico, ma anche auto elettrica), aspetto che comporta un abbattimento dei costi di produzione. Egli argomenta che non converrebbe affatto imbarcarsi in una guerra commerciale con gli americani, in primo luogo perché non si disporrebbe di armi adeguate per combatterla, inoltre per la ragione che un incremento della domanda (ad esempio di auto elettriche negli Usa) sarebbe benefica anche per quelle imprese europee che hanno delocalizzato in America a seguito del varo dell’IRA, giocando una carta in parte diversa da quella della pura esportazione.
EVITARE DI PERDERE IL MERCATO AMERICANO
In definitiva, l’Inflaction Reduction Act è un provvedimento che non ha tanto a che vedere con la tutela dell’ambiente, quanto con il dominio economico (obiettivo macro) e con aspetti strategici relativi alla sicurezza (contenimento della Cina Popolare) e per l’Europa, semmai, il problema si pone nei confronti della concorrenza cinese sui mercati. Infatti, sottolinea sempre Daniel Gros, Pechino ha tutto l’interesse a esportare in Europa i suoi prodotti, a cominciare dalle auto elettriche, visto che è impossibilitata a farlo negli Usa a causa del blocco commerciale decretato da Washington. Inoltre, i cinesi dispongono di capitali enormi derivanti dal loro risparmio che possono venire investiti, vantaggiose economie di scala e un mercato interno di vaste dimensioni, dunque sarà sempre in grado di sussidiare le sue imprese ed aziende. Si tratta di un aspetto che dovrebbe dissuadere dall’ingaggiare uno scontro su questo terreno e, semmai, confrontarsi su quello delle tecnologie, che in Occidente sono ancora più avanzate, evitando al contempo, però, di perdere i legami con il mercato americano.
ascolta di seguito la registrazione integrale dell’audio relativo alla tavola rotonda alla quale ha partecipato il professor Daniel Gros (A591AB)