a cura della nostra collaboratrice Cristina May Patucchi, architetto e storica dell’arte – Damiano Damiani, un ricordo del grande regista friulano che lo scorso anno se fosse stato ancora in vita avrebbe compiuto cento anni, ha avuto luogo presso il Fogolâr furlan di Roma.
NON UNO, MA CENTO DAMIANI
A seguito della presentazione dell’evento e degli innumerevoli illustri ospiti convenuti per l’occasione, il presidente del sodalizio friulano della Capitale, Francesco Pittoni, ha sottolineato la corposità del programma, passando quindi la parola all’avvocato Gianluca Ruotolo, consigliere, pubblicista e profondo conoscitore della cultura regionale. È stato lui a condurre la serata, ricordando come il regista abbia ricevuto il prestigioso premio “Giovanni da Udine. Presenza friulana a Roma e nel Lazio”, oltre a quello di CinemaZero. La poliedrica personalità, unitamente all’attività artistica di Damiani è stata ripercorsa nel lungo intervento dello storico del cinema Ugo Caruso. «Non uno, ma cento Damiani», ha egli esordito riprendendo un’affermazione sul regista friulano scritta nel bel libro di Alberto Pezzotta. Caruso esordisce con una battuta ironica domandandosi se la critica cinematografica abbia dimenticato Damiani per via una sorta di alzheimer collettivo.
RICORDARE LE OPERE CINEMATOGRAFICHE
Sostiene il critico cinematografico che «si tende a ricordare i film sulla base dei temi, poiché veniamo permeati da una diffusa ignoranza sul linguaggio cinematografico», ma, in realtà, accade lo stesso per ogni forma d’arte. Infatti, l’interrogativo che a questo punto si pone è se possiamo giudicare il valore di un’opera sulla base del soggetto rappresentato: è possibile dire che, il disegno di un paesaggio sia più bello di quello di un cumulo di spazzatura, solo per cosa è stato rappresentato in quel disegno? Non dipenderà piuttosto dal come i diversi soggetti sono stati rappresentanti? Ciò solitamente si verifica quando si procede per stereotipi, di fonte a un’opera di linguaggio visivo.
LA FORMAZIONE ARTISTICA DEL REGISTA
Damiano Damiani si era formato all’accademia milanese di Brera e, come più avanti emerso nel corso dell’incontro al Fogolâr furlan e verrà anche lamentato da sua figlia, la vena artistica di disegnatore e pittore venne sempre messa da parte, trascurata rispetto alla sua attività cinematografica. Caruso ha fatto riferimento a un linguaggio attento e accattivante, «che cattura lo sguardo e l’attenzione dello spettatore», questo fin dagli esordi con il film “Il rossetto”. Poi, nel corso del dibattito, l’altro esperto di cinema intervenuto, Graziano Marraffa, fondatore e presidente dell’Archivio storico del cinema italiano, si è abbandonato a un ricordo suddividendolo temporalmente. «Se in Italia ci fosse stata una nouvelle vague – ha affermato -, Damiani sarebbe stato parte di quella, nonostante sia stato definito come il più americano dei registi italiani».
UN CINEMA DI DENUNCIA PER I TEMPI INCREDIBILMENTE MODERNO
Film bellissimi, seppure spesso trascurati nella memoria collettiva, quali “La rimpatriata”, opera relegata al semplice filone intimista, o come come “L’isola di Arturo”, ovvero ancora “La noia”, pellicole che non vengono celebrate adeguatamente quanto quelle di stampo politico-culturale come ad esempio “Quien sabe” o “Il giorno della civetta”. Anche nell’affrontare temi sociali come la mafia, Damiani (che al siciliano Leonardo Sciascia era profondamente legato) fu profetico e innovativo: la mafia non è semplicemente un’isola lontana con personaggi dalla coppola in testa e la lupara imbracciata, com’era nel ricordo adolescenziale di Marraffa, bensì un argomento che venne dal regista affrontato in modalità del tutto moderne, soprattutto per i tempi, quando ad esempio trattò il tema degli appalti e della magistratura, qualcosa di incredibilmente più vicino e possibile.
TRAGICAMENTE PROFETICO
Non l’approccio paradossale e quasi surreale come in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, ma estremamente realistico nel narrare i rapporti tra stato e mafia. In “Confessione di un commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica” egli raggiunse forse il momento più alto di questo suo filone di denuncia sociale. Tragicamente profetico nel racconto, poiché i relatori pongono in relazione la sua opera cinematografica con l’assassinio del Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, che stava svolgendo le indagini sul mafioso corleonese Luciano Liggio e venne ucciso il 5 maggio del 1971, soltanto una settimana prima dell’uscita del film nelle sale cinematografiche.
LE TESTIMONIANZE DI ATTRICI E AUTORI
Analizzati quindi gli altri filoni seguiti dal grande regista con esiti alterni, seppure sempre con estrema capacità. Poi gli interventi di due attrici: Gabriella Giorgelli e Adriana Russo, e del direttore della fotografia e autore Nino Celeste. Tutti hanno ricordato Damiani ricorrendo ad aneddoti ed episodi legati alle loro attività e agli incontri avuti col regista. Simpatico l’intervento di Roberto Ceccacci, attore e agente di spettacolo, che ha ricordato come anche Michele Placido sia in parte debitore di Damiani per la sua notorietà acquisita presso il grande pubblico grazie all’interpretazione del commissario Cattaneo nella serie televisiva “La piovra”.