GIUSTIZIA, professioni sanitarie. Colpa medica ed errata individuazione delle linee guida

In un procedimento per responsabilità professionale in ambito sanitario, la Cassazione ha censurato l'errata individuazione delle linee guida da parte del giudice di merito. Nel caso specifico, infatti, il grado di colpa del medico radiologo avrebbe dovuto essere analizzato alla luce delle linee guida riferibili a tale figura professionale, per poterne valutare l'imperizia nell'esecuzione e interpretazione dell'esame diagnostico nonché la rilevanza del conseguente errore sul nesso eziologico tra la condotta e la successiva morte del paziente

a cura degli avvocati  Marco Della Bruna e Valentina Guerrisi,https://www.devita.law/colpa-medica-linee-guida/La Corte di Appello di Torino riformava integralmente la sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Ivrea nei confronti di un medico radiologo ritenuto responsabile per colpa grave del reato di omicidio colposo nei confronti di un paziente.

LA FATTISPECIE

In particolare, la responsabilità della professionista era stata inizialmente ravvisata per aver escluso la presenza di lesioni encefalitiche e sanguinamento intracranico all’esito dell’esame radiologico, in seguito al quale il medico del Pronto Soccorso aveva dimesso il paziente, deceduto pochi giorni dopo per un edema cerebrale. Tale pronuncia della Corte di Appello era intervenuta in seguito ad un primo annullamento con rinvio pronunciato dalla IV Sezione della Cassazione, che aveva rilevato come il Giudice di merito avrebbe dovuto verificare l’esistenza di linee guida o buone pratiche applicabili al caso concreto, stabilire il grado della colpa sulla base dell’eventuale discostamento da queste nonché della difficoltà della prestazione resa e, infine, valutare l’eventuale applicabilità di una previsione più favorevole all’imputata. In sede di rinvio, la Corte torinese aveva dunque assolto perché il fatto non costituisce reato, valorizzando la difformità dei giudizi degli specialisti intervenuti nel processo e la difficoltà della prestazione resa dalla radiologa in relazione alla sua capacità di individuare la malattia.

I MOTIVI

La parte civile aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo, tra gli altri, i seguenti motivi. In primo luogo, veniva contestata la erronea individuazione delle linee guida sulla base delle quali avrebbe dovuto operare la radiologa al momento dell’esecuzione e dell’interpretazione della TAC cerebrale; non il «percorso diagnostico terapeutico assistenziale per la gestione dell’emorragia subaracnoidea» per medici di pronto soccorso, bensì le linee guida nazionali sulla «diagnostica per immagini». Sulla base di queste, infatti, le indagini complesse dovrebbero essere eseguite da medici esperti, con la necessaria verifica della corretta esecuzione ed interpretazione diagnostica, considerata anche la responsabilità del medico radiologo nella esecuzione e selezione delle immagini. Nel caso di specie, la radiologa aveva escluso la presenza di versamenti o raccolte ematiche nel cranio del paziente, non aveva preso in considerazione l’immagine sfocata emersa dall’esame e, infine, non possedeva la competenza idonea per le valutazioni conseguenti. Difatti, la stessa era una radiologa generica e non una neuroradiologa specializzata in diagnostica del cranio. Il secondo motivo lamentava l’omesso esame della refertazione della professionista, nella quale aveva escluso ogni ipotesi di emorragia subaracnoidea. Invero, nel referto non era stato fatto alcun riferimento all’immagine sfocata, né alla propria incompetenza specialistica.

LE LINEE GUIDA

La rilevanza delle linee guida nell’individuazione della colpa medica è stata oggetto di numerosi approfondimenti dottrinali e giurisprudenziali, di pari passo con l’evoluzione normativa che ha interessato la materia. La rilevanza delle linee guida, al di là della disciplina intervenuta nel tempo, è data dalla loro natura di manifestazione positiva delle regole delle professioni sanitarie. Secondo la definizione offerta dalla sentenza delle Sezioni Unite Mariotti, queste sono «un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi». Prima dell’introduzione della legge Balduzzi e, successivamente della legge Gelli-Bianco, il parametro di valutazione della colpa medica era costruito sul dettato dell’art. 2236 c.c., «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave». Nel tempo, dunque, si erano formati più orientamenti contrastanti. Secondo un primo, il prestatore d’opera, in ossequio al dettato dell’art. 2236 c.c., poteva rispondere anche in sede penale solo per dolo o colpa grave; opposto orientamento, invece, rigettava la possibilità di applicare in sede penale il criterio civilistico, preferendo applicare unicamente le regole generali ex art. 43 c.p., poiché la condotta colposa penalmente rilevante ha ricadute dirette sulla vita e la salute delle persone e non meramente su aspetti economico-patrimoniali. Infine, un terzo e intermedio orientamento, pur valorizzando l’autonomia dell’ordinamento penale, considerava l’art. 2236 c.c. come una regola di esperienza per valutare l’imperizia del professionista nel caso concreto. Per valutare la condotta del professionista, peraltro, si era iniziato già a fare sempre più riferimento alle linee guida e alle buone pratiche consolidate nella professione sanitaria.

LA LEGGE BALDUZZI

La crescente problematicità della materia (e l’aumento esponenziale dei procedimenti penali a carico di medici) ha spinto il legislatore ad intervenire, nel 2012, con il cosiddetto decreto (in seguito legge) Balduzzi (all’epoca ministro della Salute). In particolare, l’art. 3, comma 1, ha positivizzato il ricorso alle linee guida: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve (…)». Tuttavia, questa disciplinava lasciava numerosi interrogativi senza risposta, in particolare rispetto all’individuazione delle linee guida e buone pratiche «accreditate dalla comunità scientifica», incontrando le critiche di dottrina e giurisprudenza.

LA LEGGE GELLI-BIANCO

Alla luce dell’insuccesso del precedente intervento, nel 2017 il legislatore è tornato ad occuparsi della colpa medica con la legge n. 24 dell’8 marzo, c.d. Gelli-Bianco , che ha codificato la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario all’art. 590 sexies c.p.. Rispetto alla disciplina previgente, è stata esclusa la punibilità solo per imperizia, nel caso in cui il professionista abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi di legge o, mancando queste ultime, dalle buone pratiche clinico-assistenziali. Da un lato, è stata superata l’incertezza sulle linee guida potenzialmente rilevanti, ora pubblicate nel Sistema nazionale per le linee-guida del Ministero della Salute; dall’altro, è venuto meno il discrimine tra colpa lieve e colpa grave, in assenza di un esplicito riferimento al grado della colpa. Le citate Sezioni Unite Mariotti hanno evidenziato come questo sistema di linee guida pubblicate sia di maggiore aiuto per il professionista sanitario che si trovi ad affrontare soprattutto attività di particolare rischio e complessità. E proprio le Sezioni Unite, dopo le difficoltà interpretative emerse dagli interventi contrastanti delle Sezioni semplici, hanno delineato i principi di diritto a cui deve ispirarsi l’interpretazione della più recente disciplina, anche in relazione alla norma previgente.

  1. In primo luogo, la causa di non punibilità dell’art. 590 sexies opera soltanto quanto il sanitario abbia individuato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia al momento dell’attuazione delle stesse. Viene dunque esclusa l’applicazione alla colpa da imprudenza e negligenza, alla colpa grave da imperizia o infine alla colpa derivante dalla mancata applicazione o erronea individuazione di linee guida e buone pratiche.
  2. La disciplina dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi viene ritenuta più favorevole per il sanitario rispetto a quella introdotta dalla legge Gelli-Bianco, sia per quanto riguarda la colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia per gli errori derivanti da colpa lieve da imperizia in fase di scelta delle linee guida adeguate al caso concreto.
  3. Le linee guida pubblicate ai sensi della legge Gelli-Bianco non contengono precetti cautelari vincolanti la cui violazione determini una responsabilità per colpa specifica. Si tratta invece di parametri che si devono adattare al caso specifico e dai quali il professionista deve discostarsi se inadeguati in concreto.

LA DECISIONE

All’esito della ricostruzione effettuata dalla Corte di legittimità, è stata in primis ritenuta corretta l’individuazione operata dalla Corte d’Appello della normativa applicabile al caso di specie (il decreto Balduzzi) vigente al tempo della commissione del fatto e più favorevole al reo. Come detto, infatti, la disciplina dell’epoca escludeva la responsabilità per colpa derivante da negligenza o imprudenza (dunque non solo per imperizia) del medico che si fosse comunque attenuto alle linee guida o alle buone pratiche accreditate. Tuttavia, il giudice del rinvio era stato investito principalmente della corretta individuazione delle linee guida su cui parametrare la correttezza dell’operato dell’imputata. Erroneamente, la Corte di Appello aveva ritenuto la responsabilità esclusiva del medico di pronto soccorso che aveva dimesso il paziente, focalizzandosi sulle competenze (e, di conseguenza, sulle linee guida applicabili) relative a questa figura sanitaria. E invece, le linee guida rilevanti non potevano essere, nel caso di specie, né quelle individuate per il medico che si trovi già di fronte ad una sospetta emorragia subaracnoidea, né quelle per il neurochirurgo già incaricato di trattare un aneurisma individuato. L’indagine di merito avrebbe invece dovuto riguardare le competenze professionali del medico radiologo; in tal modo si sarebbe potuto valutare se la condotta dell’imputata si fosse effettivamente discostata dalle linee guida o dalle buone pratiche accreditate relative a tale specifica figura sanitaria.  Infatti, a parere della Cassazione, è centrale la mancata rappresentazione nel referto dell’immagine sfocata emersa dalla TAC; pertanto, l’esclusione di anomalie nel cranio del paziente non avrebbe potuto indurre nel medico del Pronto Soccorso il dubbio su una possibile diagnosi di aneurisma – che invece sarebbe sorto a fronte di una scarsa leggibilità ed interpretabilità delle immagini radiologiche, combinate con la corretta rappresentazione della (scarsa) competenza del medico radiologo rispetto all’esame effettuato. Nel caso di specie, la negligenza o l’imperizia sono dunque ravvisabili nella scelta di redigere un referto che attestasse l’assenza di segni di una emorragia cerebrale senza rappresentare la necessità di approfondimenti diagnostici, nonostante la TAC effettuata non fosse leggibile né correttamente interpretabile. Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza impugnata e, stante l’intervenuta presentazione del ricorso dalla sola parte civile, ha rinviato per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in appello.

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