In Turchia si vota e l’Akp in campagna elettorale cavalca i temi nazionalistici dai contorni apocalittici della grandezza di una Patria in pericolo. È il presidente in prima persona a impegnarsi in questo battage propagandistico, egli infatti è perfettamente consapevole del fatto che la Turchia non corra più con la quinta marcia innestata sull’autostrada del benessere economico. Allora ricorre alla pancia del Paese con i classici temi retorici in grado di rendere coeso l’elettorato attorno a sé e al suo partito. Ma i tempi sono cambiati, poiché l’economia nazionale – un po’ di suo un po’ perché sotto attacco dei mercati – non risponde più come prima ai bisogni della gente.
Recep Tayyp Erdoğan è estremamente abile in questo, lo ha dimostrato nel recente passato, quando trovatosi di fronte a una crescente crescita dei rischi ai quali era esposta l’economia del suo paese, avendo oltremodo chiaro il fatto che su di essa si giocasse una partita fondamentale per il potere suo e del suo partito, in vista delle attese elezioni presidenziali e regionali ha saputo sfruttare al meglio la congiuntura economica apparentemente favorevole che gli si è prospettata in quel particolare momento. Tuttavia, i primi segnali di un calo di consensi hanno acceso la lampadina rossa dell’allarme, ponendo i primi dubbi sulla futura tenuta del governo. Insomma: il sostanziale deterioramento delle condizioni economiche in Turchia costituivano un serio problema anche e soprattutto sul piano politico, un problema di difficile soluzione.
Superato con successo il tentativo di colpo di stato militare subito – e colta prontamente l’occasione fornitagli dai “generali felloni” al suo giro di vite liberticida contro gli oppositori -, il presidente turco ha iniziato a operare in un contesto internazionale del tutto mutevole, giungendo a un radicale mutamento di alleanze, una scelta di campo che ancora oggi influenza le dinamiche regionali. Sul piano economico, malgrado le apparenze di un’inaspettata ripresa della crescita, a un anno dal tentato golpe la crisi si faceva sentire incombente e la silenziosa crescita dei rischi per i turchi si materializzava nella pressione esercitata dai mercati sulle finanze di Ankara.
L’Akp è al potere dal 2002 e. i primi anni della presidenza di Erdoğan erano contraddistinti dalla crescita economica. L’integrazione della Turchia nel sistema occidentale capitalistico aveva garantito una fase di sviluppo, che in termini politici ha significato il grande consenso popolare al capo dell’Akp. La Turchia era (e ancora è) la maggiore economia dell’Asia Minore, un paese in possesso di una forte base industriale che si è integrato con l’economia dell’Unione europea agganciandone la ripresa, dunque, cosa è successo in questo lasso temporale? Perché tutto è cambiato? Per approcciarsi meglio al problema è utile procedere per gradi ritornando indietro al 2015.
Il 2015 è stato infatti un anno particolarmente difficile per il sistema bancario turco, che ha registrato una prepotente intrusione della politica nell’attività creditizia. Le concomitanti tensioni geopolitiche nella regione e il rating negativo, conseguenza dell’abbassamento degli standard decretato dalle principali agenzie internazionali hanno contribuito al rallentamento dell’economia nazionale, alimentando la crisi turca.
Il governo di Ankara è intervenuto direttamente per abbassare il requisito delle riserve che le banche dovevano obbligatoriamente detenere, un provvedimento che ha liberato una ingente massa di denaro rendendolo così disponibile agli impieghi nella finanza. Questo ha contribuito a incrementare i profitti del 40%, un effetto diretto del sostegno politico pervenuto dal partito politico al governo, l’Akp appunto, alle banche trovatesi a fronteggiare la crisi. La congiuntura economica positiva, il cosiddetto “boom” dei profitti registrato nel biennio 2016-17 (cavalcato ai fini del consenso elettorale da Erdoğan) era quindi anche il frutto di una manovra politica finalizzata a ridurre la minaccia di un aggravamento della crisi incoraggiando i prestiti al settore reale, inclusi quelli erogati per il tramite del Fondo di garanzia (Kgf), che ne ha fatto così lievitare l’ammontare complessivo a 25 miliardi di lire turche (allora pari a circa sette miliardi di dollari). In una fase di forti tensioni in campo economico le banche turche riuscirono così a conseguire profitti enormi, praticamente raddoppiati rispetto al passato, a fronte, però, di una mancata riduzione dei tassi di interesse. E siamo all’estate del 2017.
Tutto questo, naturalmente, non mancò di generare manovre sul piano politiche e tentativi di indirizzo su base verticistica del credito. Infatti, l’Akp, espressione dell’islam politico in Turchia, da tempo muoveva critiche al sistema bancario nazionale, in particolare per via dell’eccessiva redditività e degli elevati tassi di interesse, una piattaforma teorica (classico cavallo di battaglia delle teocrazie) dalla quale Erdoğan poté prospettare un intervento mirante all’introduzione di una nuova e diversa disciplina del settore. Questa, qualora avesse avuto luogo, avrebbe previsto un intervento della banca centrale pubblica e degli istituti bancari pubblici effettuato sotto lo stretto controllo dell’agenzia per la regolamentazione e la vigilanza bancaria. Una politica apparentemente contradditoria quella del presidente, che, dopo aver incoraggiato nei due anni precedenti gli istituti bancari pubblici e privati all’erogazione dei prestiti incrementando il volume degli affari nel Paese (e i conseguenti profitti), adesso invece attaccava le banche oscurando così la sua precedente politica.
Intanto sull’economia turca riaffiorava la minaccia della crisi. Il Kgf aveva concesso prestiti per oltre duecento miliardi di lire turche a 313.000 clienti, giungendo a ridosso del limite stabilito dalla legge che era di 250 miliardi. Tuttavia, fino alla metà dell’anno precedente le banche turche avevano ottenuto dei bassi profitti, risultato negativo che avevano conseguentemente reso minore l’offerta creditizia alla clientela. Grazie ai finanziamenti ricevuti dall’estero erano state poi in grado di erogare alle imprese private e ai consumatori nel mercato interno turco, con ovvi effetti incrementali sulla crescita.
Ebbene, nell’estate del 2017 si ritenne che ulteriori espansioni delle misure correnti sarebbero state impossibili in quanto generatrici di incrementi dei rischi di natura macroeconomica. In luglio i prestiti interni erogati dalla tesoreria, 16 miliardi di lire turche, avevano nettamente superato il limite stabilito in 15,1 miliardi. Venne prevista l’adozione di misure fiscali e le finanze turche andarono sotto pressione. Gli effetti di quest’ultima non tardarono a riflettersi anche sui titoli del debito di Ankara, che videro il tasso di interesse impennarsi. La situazione si ripercosse sul tesoro turco, che in settembre si vide costretto ad acquistare valuta estera o, in alternativa, a offrire eurobond per rimborsare i debiti contratti all’estero. In questo quadro difficile si profilava inoltre il pericolo di un “doppio deficit” dovuto a un disavanzo di bilancio inferiore al 2,5% del Pil e a un contestuale deficit delle partite correnti, atteso in crescita al 5% dal 3,8 dell’anno precedente, questo a seconda del possibile andamento del tasso di crescita.
Ma ecco alla fine dell’estate l’inaspettata ripresa economica che ridava ossigeno al Paese e al suo vertice politico: la fase recessiva registrata nel 2016 veniva superata grazie agli stimoli fiscali e all’aumento della domanda, sia interna che esterna. Una “fiammata” che rischiò di spegnersi a causa del contestuale deterioramento dei rapporti tra Ankara e l’Unione europea, in particolare con la Germania della cancelliera Angela Merkel. Una vera e propria incognita sul futuro della Turchia, infatti, un fallimento dell’accordo doganale con Bruxelles sarebbe stato catastrofico per i turchi, poiché a quel punto per il loro sistema economico non sarebbe stata sufficiente neppure l’adozione (a dire il vero rallentata) delle riforme strutturali in programma.
Erdoğan, in un impetuoso esercizio di retorica indicò la causa di tutti i mali della Turchia nella «lobby dei tassi di interesse», denunciando la congiura ordita da essi al fine di mantenerli elevati e, così, danneggiare l’economia turca. Egli cercava di attrarre investimenti esteri prospettando per il 2018 risultati ancora migliori, ma aveva lo sguardo fisso sulle attese scadenze elettorali, che avrebbero avuto luogo in clima politico teso e influenzato da fattori di instabilità sia interna che esterna. Non erano certamente poche le criticità: la situazione conseguente alla dura repressione interna seguita al tentato colpo di stato del 2016, la guerriglia curda nell’Anatolia sudoccidentale, l’impego militare in Siria e, financo, l’immanente crisi economica, aggravata dal deficit pubblico finanziato mediante la contrazione di ulteriori debiti all’estero con la conseguente dipendenza politica di Ankara dai creditori.
E siamo all’anno 2018, quando economia e politica turca ormai si erano aggrovigliate tra loro. L’anno precedente il Pil era cresciuto a un tasso superiore al 7%, più che raddoppiato rispetto a quello registrato nel 2016, che si era attestato solo al 3 per cento. Un risultato imprevisto che solleva degli interrogativi riguardo ai modi nel quale è stato conseguito. Come comprendere questa crescita? Per farlo non basta esaminare il dato aggregato costituito dal Pil, ma si deve fare riferimento anche ad altri indicatori, poiché quella crescita fu il prodotto del forte sostegno fornito dal governo all’economia nelle forme della spesa pubblica, dell’erogazione di incentivi alle imprese e dei tagli fiscali. Alcuni accreditati analisti al riguardo hanno parlato di «un’azione politica che ha pompato l’espansione», in quanto quest’ultima si è basata principalmente sui consumi e meno sugli investimenti, che infatti non sono andati incontro a una fase di ripresa.
Ma questa espansione trascinata dai consumi ha generato due effetti perniciosi per l’economia turca: la ripresa della dinamica inflattiva e il deficit della bilancia commerciale provocato dall’aumento delle importazioni dall’estero. La domanda ha impattato su una non idonea capacità del sistema produttivo nazionale di risposta agli stimoli provenienti da un mercato interno riavvivatosi in maniera repentina, tanto che in aprile il tasso di inflazione aveva raggiunto il 12%, con riflessi negativi sui prezzi al consumo dei beni, che sono aumentati.
Nel caso del deficit della bilancia commerciale va rilevato che si tratta di una storica criticità del sistema economico turco. L’incremento della domanda ha generato un notevole incremento dei volumi nei flussi di importazione dall’estero, con evidenti riflessi negativi sulla bilancia commerciale turca, anche in ragione del ricorso al debito estero, che nel 2017 fu una voce che incise sensibilmente. Il forte deficit corrente e la conseguente necessità di finanziarsi all’estero ha posto la Turchia in una situazione di dipendenza. Conferma di tutto ciò ne sarebbe stato il tasso di cambio della moneta nazionale, la lira, che in un contesto di crescita simile avrebbe dovuto ingenerare delle aspettative nel senso di un corposo afflusso di investimenti dall’estero, dunque di capitali, cosa che non si è affatto verificata, poiché invece si è assistito all’effetto esattamente contrario, cioè un forte deflusso di capitali.
In relazione a questi sviluppi la lira turca ha subito un ennesimo deprezzamento, segnando nel periodo di riferimento un record negativo al cambio col dollaro Usa (quattro lire turche per un biglietto verde).
Gli argomenti relativi ai progetti di un sultanato neo-ottomano in Medio Oriente e alle pericolose strategie di breve-medio respiro nell’universo curdo oltre le frontiere dello Stato turco in Siria e Iraq verranno trattati in un prossimo specifico articolo, in questa sede sarà sufficiente rilevare come, di fatto, l’aumento del deficit commerciale e del debito estero di Ankara abbiano aumentato la dipendenza politica dei turchi all’esterno, nonostante la propaganda. È la nemesi storica dei governi sovranisti che alla fine con le loro politiche di sovranità ne vanno perdendo.
Lo stimolo, in parte artificiale, fornito all’economia dall’esecutivo in carica ha spinto a livelli di crescita al di sopra del suo potenziale, ma in assenza di investimenti e di riforme sistemiche di natura strutturale (che solitamente vengono mal digerite dall’opinione pubblica in quanto impopolari). Si dirà: ma il presidente turco non avrebbe potuto non perseguire i propri fini elettorali agendo diversamente, poiché non si sarebbe potuto certamente presentare davanti agli elettori il giorno delle consultazioni per i rinnovi dei municipi con un’economia che fosse – almeno apparentemente – in crescita. Ma adesso che le urne sono state chiuse cosa farà Recep Tayyp Erdoğan? Procederà sulla falsariga del passato? Poco probabile, anche perché prima o poi qualcuno gli presenterà il conto.
La Turchia è costretta a finanziarsi sui mercati internazionali, ma per rinvenire degli investitori disposti ad acquistare titoli del suo debito pubblico è costretta a remunerare questi ultimi con tassi di interesse estremamente elevati, anche rispetto a quello medio praticato nei confronti dei paesi cosiddetti emergenti.
Per ora è possibile soltanto attendere che si faccia giorno e che vengano resi pubblici i risultati dello scrutinio delle schede elettorali. Soltanto allora, conosciute le proporzioni politiche nel Paese si potrà abbozzare un’analisi in prospettiva, tenendo però ben presente che le ubbie propagandistiche legate agli impegni dello strumento militare nazionale per Erdoğan pagheranno sempre meno e che, inoltre, è attesa la fine delle politiche monetarie espansive non convenzionali poste in essere dalla Federal Reserve statunitense e dalla Banca centrale europea, con l’associata previsione di un riassorbimento delle liquidità. Uno scenario non certo allettante per Ankara.