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I leader al potere ad Algeri avrebbero sopravvalutato la pazienza del popolo e lo scatenarsi delle manifestazioni di piazza evidenzierebbero la fine del presunto distacco dalla politica ereditato dal “decennio nero”
Dal giorno 22 febbraio l’Algeria è infiammata a causa della protesta contro l’ennesima candidatura di Abdelaziz Bouteflika alla presidenza della repubblica. Se venisse rieletto per lui si tratterebbe del quinto mandato. Una candidatura che ha colto tutti di sorpresa e che ha scatenato la protesa nel Paese nordafricano, questo malgrado la gente non fosse così propensa alle manifestazioni di piazza, memore delle violenze del cosiddetto «decennio nero» degli anni Novanta. Pochi avevano immaginato un tale sviluppo della situazione politica, infatti, fino a oggi si riteneva che la classe dirigente di Algeri avesse congelato in una stagnazione durata vent’anni una società precedentemente traumatizzata dalla guerra civile tra il governo del Fronte di liberazione nazionale e gli islamisti radicali.
Secondo lo storico Karima Dirèche, intervistato da “Le Monde Afrique” il 28 febbraio scorso, evidentemente si è trattato di una visione distorta. Essa – sempre secondo l’opinione raccolta dalla testata in lingua francese – sarebbe il frutto della costante ripetizione del “mantra” ufficiale delle autorità politiche e religiose che inquadrerebbe la violenza del “decennio nero” nella temperie creata dalle sfide politiche lanciate alla fine degli anni Ottanta, in particolare della “primavera algerina” del 1988, che mise in discussione l’ordine politico che dai tempi dell’indipendenza dalla Francia aveva garantito la sicurezza e la pace. Nel corso della successiva guerra civile si verificò una vera e propria tragedia nazionale, negli scontri tra l’esercito e i militanti islamisti perirono tra 100.000 e 200.000 persone, mentre 20.000 furono i dispersi.
Questa lettura vedeva la gente congelata dal terrore e sprofondata nella miseria, un timore del caos che frustrava ogni stimolo alla mobilitazione collettiva. La convinzione radicata sia ai vertici del potere politico che nel mondo intellettuale era che gli algerini non sarebbero più scesi in piazza per protestare, poiché avevano sofferto troppo nel recente passato e quindi aspiravano soltanto a vivere tranquilli e in pace, anche a costo di sopportare una lunghissima parentesi rappresentata dalla presidenza di Bouteflikà, cioè di una stabilità politica incarnata per decenni da un uomo espressione dell’establishment.
Ora però le cose starebbero cambiando, gli algerini non sembrano più intimiditi dalla violenza del passato. Sempre secondo Dirèche la gente ormai è stanca di questa situazione, alimentata quotidianamente dall’arroganza delle dichiarazioni ufficiali, da minacce appena velate e da quello scranno presidenziale vuoto e mascherato da una cornice con l’effigie del Presidente. «Gli algerini vivono male l’umiliazione di questo surreale rituale di fedeltà ad una struttura. Il regime ha sopravvalutato la pazienza del popolo, lo testimoniano le manifestazioni di protesta, e ora tornano a impegnarsi in politica affermando di non voler votare per una sedia vuota».