CONFLITTI, Etiopia. Si aggrava la situazione per il presidente Abiy Ahmed

Sarà in grado di sopravvivere un paese a tal punto dilaniato dalle forze centrifughe? Cosa potrebbe succedere se Abiy Ahmed perdesse la sua ultima battaglia? Due studiosi anglosassoni in una loro analisi pubblicata da “Foreign Affairs” hanno delineato quattro possibili scenari futuri e una diversa visione complessiva per il Paese dell’Africa orientale

La campagna militare lanciata contro le forze ribelli del Tigray e parte delle vicine regioni di Amhara e Afar dal primo ministro etiope e premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed si è risolta con una sostanziale disfatta, al punto che la stessa capitale Adis Abeba è ora esposta all’attacco finale nemico, che potrebbe rappresentare l’epilogo di un anno di guerra che ha causato migliaia di vittime e quasi due milioni di profughi.

A questo punto, il quesito da porsi è se l’annosa questione del Tigray porrà in discussione l’esistenza stessa dello Stato etiope così come è nella sua forma attuale, quesito al quale hanno cercato di fornire una risposta Nic Cheeseman (docente presso l’Università di Birmingham) e Yohannes Woldemariam (suo collega presso l’Università del Colorado),  che hanno analizzato la situazione del Paese africano in un articolo pubblicata su “Foreign Affairs” il 5 novembre scorso (https://www.foreignaffairs.com/articles/ethiopia/2021-11-05/can-ethiopia-survive).

UN PAESE DILANIATO DA MOTI CENTRIFUGHI

Ebbene, essi giungono alla sconfortante conclusione che in Etiopia le forze centripete (unificanti) sono state sovrastate da quelle centrifughe (dividenti), con il conseguente rapido dilaniarsi dello stato centrale. Insomma, la sfida del presidente Abiy (ex militare e membro dei servizi di intelligence; di padre oromo, madre amhara e orientamenti politici apparentemente riformatori) si sta infrangendo contro il muro della scarsa coesione e della conflittualità di un paese tanto vasto quanto variegato sul piano etnico e sociale.

Il conflitto tigrino ha messo in discussione l’alleanza di governo che in qualche modo ha tenuto assieme l’Etiopia dal 1991. Abiy si è scontrato con il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF), in precedenza detentore del potere e oggi ribelle e in guerra con Adis Abeba allo scopo di ottenere una maggiore autonomia (indipendenza). Inevitabilmente, il conflitto ha assunto una marcata connotazione etnica, mentre le potenze regionali e i paesi confinanti non hanno mancato di approfittare della situazione di crisi a proprio vantaggio, generando altresì dinamiche di guerra per procura.

È la fine del mito (per la verità ingigantito dalla propaganda) di una Etiopia «potente e stabilizzatrice» dell’Africa orientale, di un paese che è divenuto esso stesso altamente instabile.

MASSACRO E STALLO

Allo stato attuale – affermano Cheeseman e Woldemariam nel loro articolo -, anche se i combattimenti venissero fermati persisterebbero tuttavia insanabili disaccordi sull’esercizio del potere nel Paese africano, uno stallo alimentato dall’assenza di una visione condivisa del futuro dello Stato. Ma, «lo Stato deve avere una ragione per esistere e, se l’Etiopia vuole sopravvivere nella sua forma attuale, dovrà inventarsene una alternativa».

Il TPLF si è dimostrato un osso duro ed è stato in  grado di riprendere il controllo della maggior parte del Tigray, costringendo le forze armate di Adis Abeba alla ritirata. Non solo, poiché in seguito i tigrini hanno occupato delle vicine regioni di Amhara e Afar allo scopo di costringere i governi locali a cedere il controllo di un’area contesa ora comunemente denominata Tigray occidentale.

L’ultima offensiva di Abiy è stata progettata per spingere le forze del Tigray fuori da quelle regioni e tagliare in questo modo le loro linee di rifornimento che alimentano il Tigray. Ma anche in questo caso tutto si è risolto in una débacle, con gli etiopi che hanno addirittura perso il controllo delle città di Dessie e Kombolcha.

QUATTRO SCENARI

Nel frattempo, le forze del Tigray hanno iniziato a coordinarsi con l’Oromo Liberation Army (OLA), che ha intensificato il livello insurrezionale, avvicinandosi con le proprie forze pericolosamente alla capitale da sud-ovest. L’incubo per Abiy è che i movimenti ribelli si uniscano ad altri gruppi armati dell’opposizione per formare un fronte unito di forze federaliste etiopi. Alla luce di tutti questi sviluppi, nel loro articolo i due analisti di “Foreign Affairs” elaborano quattro possibili scenari, diversi esiti del conflitto in grado di minacciare la sopravvivenza dello Stato etiope.

Il primo è quello che vedrebbe la vittoria congiunta dei ribelli Tigray e Oromo sul tartassato e vacillante esercito di Adis Abeba, sviluppo che imporrebbe in seguito a TPLF e OLA il rinvenimento di un accordo che gli consenta di governare congiuntamente il paese, gran parte del quale, però, è loro ostile. In questo caso, la condivisione del potere farebbe probabilmente emergere le tensioni esistenti tra i due gruppi, aumentando il rischio di ulteriore instabilità politica.

ACCORDO O ESILIO

Il secondo possibile scenario contemplato implicherebbe una sorta di accordo frutto di una negoziazione, poiché, riconoscendo che una vittoria militare potrebbe porli nella medesima scomodissima posizione nella quale si trova attualmente Abiy, che cerca di mantenere sotto controllo un vasto territorio in vista un’inevitabile insurrezione, il TPLF potrebbe decidere di non marciare sulla capitale e, invece, di chiedere la pace a condizioni favorevoli. Tra l’altro, i leader del Tigray potrebbero imporre ad Adis Abeba un referendum per una maggiore autonomia e tutele per il Tigray. Tuttavia, un accordo del genere aumenterebbe la tensione con l’OLA, che rivendica la capitale come il cuore dell’Oromia, lasciando inoltre irrisolte  le cause alla base del conflitto e sollevando interrogativi sulla durata di tale soluzione.

Il terzo possibile scenario è quello dell’esilio di Abiy, magari rimosso dagli stessi ufficiali del suo stato maggiore. Ma – riflettono Cheeseman e Woldemariam – un colpo di stato militare non condurrebbe necessariamente il conflitto più vicino alla sua soluzione, dal momento che l’esercito è diviso al suo interno e incapace di sconfiggere il TPLF e l’OLA con la sola forza delle armi. Inoltre, se il TPLF unirà le forze con l’OLF e gli altri gruppi ribelli e di opposizione, sarà assai probabile che le loro richieste includeranno anche la rimozione di Abiy e la formazione di un governo di transizione, ma l’attuale presidente al momento non sembra disposto a fare neppure la più modesta di queste concessioni.

UNA DIVERSA VISIONE COMPLESSIVA DELL’ETIOPIA

Un possibile esito finale sarebbe una situazione di stallo prolungato. Le truppe etiopi potrebbero aggrapparsi alla capitale e alla linea ferroviaria che collega Addis Abeba a Gibuti nell’incapacità di riconquistare i territori ora controllati dalle forze tigrine e oromo. Questo sottoporrebbe Abiy a pressioni ancora maggiori per accettare un accordo negoziato. In conclusione: qualsiasi sarà la soluzione del conflitto, la stabilità e la concreta sopravvivenza dello Stato etiope richiederanno alla futura leadership di elaborare una nuova visione complessiva del Paese, della quale, però, al momento non vi sarebbe la capacità di concepire.

In Etiopia come altrove – concludono gli autori del lungo e dettagliato articolo -, la guerra civile ha distrutto infrastrutture tanto necessarie, come strade, fabbriche e apparecchiature per le telecomunicazioni, ma ha anche eroso il tessuto dell’identità nazionale. Per prevenire la disintegrazione dello Stato, la leadership dovrà trovare un modo per rimettere insieme il Paese, sia fisicamente che simbolicamente.

Farlo richiederà tre cose, nessuna delle quali sarà facile: assicurare una pace duratura, ricostruire il Tigray e le altre parti del paese colpite dalla guerra e creare un consenso sull’idea di Etiopia. Ma nessuna di esse la si potrà fare ricorrendo all’esclusiva forza militare. Tuttavia, in assenza di una visione unificante su come ricostruire il Paese il futuro dell’Etiopia oggi appare pericolosamente incerto, anche perché i modelli applicati in precedenza, sia quello del federalismo etnico che l’altro dell’accentramento politico, si sono sempre rivelati carenti se non fallimentari.

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