di Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito italiano in Riserva attualmente membro del direttorio della NATO Defence College Foundation – Continua ad aggravarsi la situazione in Etiopia, dove martedì il governo di Abiy Ahmed ha dichiarato lo stato di emergenza nell’intero paese. Mentre inizia a farsi concreta la possibilità che gli stranieri nel paese debbano essere, precauzionalmente e temporaneamente (si spera), evacuati. Il primo ministro ha esortato i cittadini di Adis Abeba ad armarsi e tenersi pronti a difendere la capitale dall’attacco dei ribelli, sia i separatisti del Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF) sia l’Esercito di liberazione degli Oromo (OLA) che hanno fatto fronte comune lo scorso agosto con l’intento di portare la guerra all’esterno dell’area del del Tigrè.
Nelle mani dei ribelli attualmente si trovano i due importanti centri di Dessiè e Combolcià, attraversati dall’autostrada che collega la regione settentrionale del Tigrè con la capitale Adis Abeba.
PROLUNGATO STATO DI EMERGENZA
Per sei mesi è stato dichiarato lo stato di emergenza con precise misure di sicurezza, quali il coprifuoco e la possibilità di intervenire militarmente dove necessario. Il ministro della Giustizia Timothewos ha dichiarato che «il Paese sta affrontando un grave pericolo per la sua esistenza, la sua sovranità e la sua unità. Non possiamo dissipare questo pericolo attraverso i consueti sistemi e procedure di applicazione della legge». I combattenti ribelli starebbero avanzando a sud, già una parte dell’Etiopia settentrionale è soggetta a un blackout delle comunicazioni, mentre l’accesso a quelle zone agli stranieri è stato limitato, quindi è difficile reperire ulteriori informazioni.
In queste ore l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, nel condannare l’incremento dei combattimenti ha dichiarato che: «L’estensione del conflitto è tanto prevedibile quanto inaccettabile, dato che il governo etiope ha iniziato a tagliare gli aiuti umanitari e l’accesso commerciale al Tigray a giugno, cosa che continua ancora oggi, nonostante le orribili condizioni di carestia segnalate».
Si ipotizza quale decisione molto probabile che il presidente Biden revochi i privilegi commerciali all’Etiopia, compresa l’esenzione dei dazi alle esportazioni di Adis Abeba, a causa delle «gravi violazioni dei diritti umani» riconosciuti a livello internazionale.
L’OFFENSIVA ETIOPICA
L’offensiva dell’esercito etiope nella regione del Tigray è iniziata nel novembre 2020 dopo che il TPLF venne ritenuto responsabile di aver attaccato una base militare governativa a Dansha. Con alterne vicende i combattimenti sono continuati nella parte centrale e meridionale della regione, fino a quando i ribelli non ne hanno ripreso il controllo riconquistando la capitale e costringendo (in giugno) il governo centrale a dichiarare un cessate il fuoco che poi non è stato rispettato. Intanto cresce la preoccupazione della comunità internazionale, mentre l’Onu ha chiesto di porre la massima attenzione alla situazione umanitaria.
La crisi interna influisce pesantemente sulla lunga controversia relativa alla diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), che Adis Abeba sta costruendo sul Nilo Azzurro, principale affluente del Nilo. Egitto e Sudan denunciano la riduzione della portata delle acque del fiume nel tratto dove quest’ultimo attraversa il loro territorio e hanno ripetutamente invocato il ricorso a un meccanismo di negoziazione attraverso un quartetto internazionale guidato dalla Repubblica Democratica del Congo, nella sua veste di attuale presidente di turno dell’Unione Africana (UA).
ALLA RICERCA DEL NEGOZIATO
Il quartetto includerebbe le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Tuttavia, Addis Abeba ha respinto l’internazionalizzazione della crisi e ha insistito per tenere i negoziati solo con il patrocinio dell’Unione Africana (UA). Egitto e Sudan volevano prima di oggi raggiungere un accordo legalmente vincolante sul riempimento e il funzionamento della diga (lo vorrebbero in cinque anni almeno), a condizione che garantisca un meccanismo efficiente per la risoluzione di future controversie. Addis Abeba insiste su un accordo che includa linee guida non vincolanti.
Il 19 luglio, l’Etiopia ha annunciato il completamento del secondo riempimento del bacino della diga con quantità sufficienti per generare energia idroelettrica. Egitto e Sudan si sono opposti a questa mossa unilaterale prima di raggiungere un accordo legalmente vincolante sul riempimento e la gestione della diga. La mediazione dell’UA iniziata nel giugno 2020 finora non è riuscita a definire un accordo per porre fine allo stallo tra i tre paesi. L’italiano Riccardo Fabiani, direttore dei progetti in Nord Africa presso l’International Crisis Group, ha al riguardo dichiarato: «Le parti in causa si sono scambiate accuse e hanno intensificato la controversia diplomaticamente e verbalmente. Alla luce di un tale clima, ci vorrebbe del tempo per tornare al tavolo delle trattative» e, dopo il colpo di stato in Sudan e la crisi in Etiopia, non è definibile quando sarà riaperto il confronto.
I VANTAGGI PER IL CAIRO
Fabiani ha anche rilevato che «un eventuale ricorso al Consiglio di Sicurezza porterà a un vicolo cieco. L’Etiopia respinge questa mossa e le principali potenze del Consiglio di sicurezza (Stati Uniti e Russia) concordano sul fatto che questa crisi non dovrebbe essere discussa in questo contesto».
Per il momento l’unico paese che dovrebbe ricavare un giovamento temporaneo dalle crisi sudanesi ed etiopica è l’Egitto che, logicamente, non vedrebbe ridursi il livello delle acque del Nilo per la mancanza di decisioni sulle dighe a monte del suo territorio a causa della situazione nei paesi confinanti. Taluni ipotizza no sottovoce che i ribelli tigrini sarebbero «sponsorizzati» dal Cairo, aspetto tutto da dimostrare.
C’è inoltre da dubitare che Usa e Unione europea riescano a esercitare pressioni sull’Etiopia in preda alla crisi interna rischiando di favorire il governo golpista sudanese. Solo Cina e Russia (che ha un interesse importante in Sudan per una base navale) sembrano schierarsi con l’Etiopia e potrebbero farsi sentire, tuttavia va ricordato che Pechino, come Ankara del resto (molto influente con i suoi servizi segreti in Africa), hanno una politica strettissima sullo sfruttamento delle acque dei fiumi.
LE RISORSE DEL «FIUME MADRE»
Come nel caso del Mekong, dove il controllo esercitato della Cina Popolare sullo sfruttamento delle acque sta ponendo a dura prova le popolazioni del Sud-est asiatico che vivono delle risorse provenienti da quello che chiamano «Fiume Madre». Le decine di dighe costruite dai cinesi minacciano un ecosistema già sotto pressione a causa degli effetti del riscaldamento globale, nell’area provocato in buona misura dall’inquinamento derivante della combustione di carbone. Circa 65 milioni di persone dipendono dalle acque, dalle risorse ittiche e dalla fertilità delle terre arricchite del limo raccolto lungo i 4.800 chilometri del percorso del Mekong.
Il grande fiume, infatti, attraversa dapprima la Cina, quindi Myanmar, Tailandia e Laos, dove forma i loro confini nel celebre Triangolo d’Oro, poi entra in Cambogia e infine sfocia in Vietnam a sud est di Ho Chi Minh city. Ma col passare del tempo la quantità di acqua si è ridotta al punto che in certi periodi dell’anno il delta vietnamita rimane quasi asciutto e il mare penetra nel suo alveo rendendo salina la terra che sfama diciotto milioni di contadini e contribuisce più del 20% al prodotto interno lordo del paese.
Pechino attribuisce il tutto alla siccità e ai cambiamenti climatici ma gli analisti evidenziano come semplicemente sfrutti la sua posizione dominante al fine di controllare i cinque paesi a valle delle sue dighe e degli impianti costruiti sia lungo il corso principale, sia sugli affluenti fin dalle sorgenti himalayane.
CAPTAZIONI A MONTE E TENSIONI CONSEGUENTI
Tanto è vero che l’influenza economica e politica cinese sull’intero bacino è tale che ben pochi dei paesi sudest-asiatici hanno il coraggio di lamentarsi ufficialmente, per timore di entrare in conflitto con il potente vicino che, si può dire apertamente, pare attuare un vero e proprio «sequestro» delle acque, trattenute il più a lungo possibile per riempire i suoi invasi con i citati effetti devastanti sul fabbisogno dei paesi a valle.
Più vicino all’Europa c’è la Turchia, che attua un «sequestro» simile sulle acque storiche di Tigri ed Eufrate, che da fonte di vita sono divenute causa di tensioni e conflitti. L’antica Mesopotamia, passata alla storia per la fertilità delle sue terre è ormai un ricordo straziato dalla contesa in cui, precisamente, gli attori in gioco sono tre: Turchia, Iran e Iraq. I primi due stanno mettendo in ginocchio il terzo, determinati a usare la risorsa idrica, a seconda dei casi, come arma diplomatica o come arma di ricatto. Il campo della contesa si allarga anche alla vicina Siria. I corsi del Tigri e dell’Eufrate, rispettivamente di 1.850 e 2780 chilometri, attraversano il cuore più generoso del Medio Oriente, la cosiddetta «mezzaluna fertile». Il punto di non ritorno per il destino di queste terre è stato il 2005, quando ad Ankara il primo governo presieduto da Erdoğan decise di dare impulso alla costruzione di un colossale piano di sviluppo regionale per sostenere lo sviluppo del settore agricolo e la produzione di energia elettrica.
IL PIANO DI ERDOĞAN E LE DIGHE DEGLI AYATOLLAH
Il piano prevede la costruzione di ventidue dighe e diciannove impianti idroelettrici, opere da completare nel 2023, centenario della nascita della Turchia moderna. Anche l’Iran ha ben chiaro come sfruttare le sue riserve idriche scaricando i costi sui Paesi confinanti. La Repubblica Islamica, negli ultimi anni, ha sviluppato sistemi di dighe che influiscono sugli affluenti più importanti del fiume Tigri (si conta che il 30% delle sue acque originano proprio dall’Iran, queste hanno un impatto rilevante). È stato calcolato che siano quarantadue i corsi d’acqua deviati o ridotti da Teheran, con conseguenze disastrose per la popolazione irachena. Dopo la caduta di Saddam e la conseguente perdita di influenza dell’Iraq in Medio Oriente, Ankara e Teheran hanno avuto una totale facilità di manovra. E ne hanno approfittato senza farsi troppi scrupoli, è dunque facile prevedere un’evoluzione tragicamente simile a quella irachena anche per la Siria, poiché la strada che la Turchia vuole percorrere per assumere il ruolo di maggiore potenza regionale «è dipinta di blu acqua».
A questi tre paesi che non rappresentano certo i massimi esempi di democrazia e libertà, si aggiungono i citati due Stati africani che stanno attraversando delle crisi interne, il Sudan e l’Etiopia, che alimentano la discussione sulla ipotizzata e futuribile guerra per un bene in costante diminuzione, ma assolutamente indispensabile, cioè l’acqua.