di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito Italiano e attualmente membro della NATO Defence College Foundation – La «Guerra dei venti anni» in Afghanistan, convintamente guidata dagli Stati Uniti, è ufficialmente giunta al termine nel momento in cui l’ultimo aereo militare dell’USAF è decollato dalla pista dell’aeroporto internazionale di Kabul.
Il Comandante della 82ª Divisione Aviotrasportata, ultimo soldato americano a lasciare il martoriato Paese centroasiatico, ha replicato quello che fece il suo omologo sovietico a suo tempo a capo della 40ª Armata sovietica quando la Russia comunista si ritirò da Kabul. Certamente, quella volta lo fecero in maniera più ordinata e programmata, non come questo «secondo Vietnam» americano.
Una fine delle operazioni che non sta rendendo onore all’Occidente, un momento molto triste per tutti i militari della NATO che non avrebbero mai pensato (almeno fino a poche settimane fa, all’elezione alla presidenza degli Usa di Joe Biden), che dopo tutti questi anni di missione, contrassegnata anche da aspri combattimenti e da sofferenze per i nostri soldati (l’Italia ha avuto 53 caduti) si sarebbe proceduto a una «fine operazione» cosi ingloriosa, per non dire peggio.
L’ULTIMO AEREO È «ON ROUTE»
Nel paese ora governato (eufemismo) dai talebani è terminato un caotico ponte aereo per trasportare fuori Kabul i cittadini occidentali e alleati afgani che hanno servito lo sforzo bellico. Molti, tuttavia, sono stati lasciati indietro con la promessa che gli sforzi diplomatici per facilitare il loro ritorno sarebbero continuati dopo l’ultimo aereo partito.
«L’ultimo aereo è on ruote: la guerra è finita», ha dichiarato un alto funzionario della Difesa statunitense. Il velivolo, un apparecchio da trasporto strategico C-17 dell’USAF (MOOSE94) stava lasciando il Paese asiatico. Erano le ore 23:59 locali, poco prima della scadenza del 31 agosto annunciata all’inizio dell’anno da Biden per la fine delle operazioni militari statunitensi.
Poco dopo, la notizia della conclusione ufficiale della guerra è stata confermata nel corso di una conferenza stampa dal capo del Corpo dei Marines presso il Comando centrale Usa, generale Kenneth F. McKenzie Jr., che ha dichiarato come ogni singolo membro degli Stati Uniti fosse ormai fuori dall’Afghanistan, ricordando che tra i passeggeri c’erano anche il comandante dell’82ª Divisione aviotrasportata, maggiore generale dell’esercito Christopher T. Donahue, e l’ambasciatore americano in Afghanistan Ross Wilson (quanta differenza rispetto al nostro ambasciatore…).
Subito è stato dichiarato che «con effetto immediato» l’aeroporto internazionale di Hamid Karzai di Kabul «non era più controllato».
IL RITORNO DEI TALEBANI
La fine della presenza occidentale giunge a meno di due settimane dal simbolico ventesimo anniversario degli attentati terroristici dell’11 settembre, evento che indusse all’intervento militare gli Usa e i loro alleati in un paese devastato da anni di guerra e sotto il dominio dei talebani, santuario inoltre i terroristi di al-Qaeda.
Ricordo che nelle settimane passate, non appena le forze alleate hanno lasciato campo ai talebani, questi si sono ripresi il controllo del paese. Un’offensiva finale che ha visto i talebani riconquistare l’Afghanistan provincia per provincia, mentre il governo di Kabul sostenuto dagli Stati Uniti e le sue forze di sicurezza si sono praticamente dissolti nel nulla, consentendo ai talebani di entrare nella capitale il 15 agosto.
Nonostante la loro storica inimicizia, gli Usa e i talebani avevano raggiunto un accordo di pace nel febbraio dello scorso anno, un’iniziativa intrapresa dal presidente Donald Trump. Il suo successore aveva promesso di continuare il ritiro e, dopo aver prorogato la scadenza originale ha deciso per la fine delle operazioni proprio il 31 agosto.
GLI ATTACCHI TERRORISTICI DEGLI ULTIMI GIORNI
Il ritiro è stato afflitto da una serie di problemi, tra cui la citata rapida acquisizione territoriale dei talebani, che sembra abbia stordito i funzionari statunitensi, che hanno comunque cercato di garantire un ponte aereo a decine di migliaia di afgani, temendo che potessero subire ritorsioni per il loro servizio al governo.
Nello stesso periodo si è verificato stato anche il terribile attacco terroristico compiuto dal ramo Khorasan del gruppo terroristico militante dello Stato Islamico (ISIS-K), che gli Usa hanno poi preso di mira, eliminando con un attacco effettuato con droni i presunti mandanti. Fonti sul posto hanno fatto trapelare che un secondo attacco con i droni, effettuato domenica scorsa, abbia ucciso un altro potenziale aggressore dell’ISIS-K, ma i talebani hanno reso noto che, purtroppo, anche una decina di civili sono rimasti uccisi nell’attacco.
Nell’ultimo giorno delle operazioni militari americane, è stato registrato un altro attacco con sistemi missilistici a breve raggio dall’ISIS-K.
Il generale McKenzie ha dichiarato che: «Era palese una grande minaccia per le truppe statunitensi in aeroporto ed era stato stabilito un perimetro controllato al di fuori dell’aeroporto per impedire alle persone di entrare nell’aeroporto durante la nostra evacuazione e, fuori, non avevano una conoscenza diretta del nostro orario di partenza».
IN ATTESA CHE CALI IL SILENZIO
L’ufficiale americano ha poi aggiunto: «Abbiamo scelto di mantenere queste informazioni molto riservate, e in realtà è stato molto utile per noi quando abbiamo chiuso le operazioni». McKenzie ha quindi concluso affermando di ritenere che i cittadini che non sono stati portati fuori siano poche centinaia: «Credo che saremo in grado di far uscire quelle persone. Penso che negozieremo anche molto duramente, in modo molto aggressivo per far uscire gli altri nostri partner afghani. La fase militare è finita, ma il nostro desiderio di far uscire queste persone rimane forte come prima».
Già in queste ore le prima immagini del nuovo regime arrivano in Occidente, ma dobbiamo aspettarcene delle altre, ben filtrate e gestite, perché questa capacità dobbiamo riconoscerla alla propaganda talebana. Poi calerà il silenzio, se si esclude quanto i talebani vorranno e consentiranno di far trapelare. Con il silenzio talebano potrebbe verificarsi anche il rischio che quella terra venga dimenticata, a causa di un rapido calo dell’attenzione internazionale su di essa.
In questo momento i talebani hanno l’assoluta necessità di un riconoscimento, almeno informale e parziale, da parte di alcuni paesi amici o potenzialmente neutrali, non passerà dunque molto tempo prima che venga alla luce la questione della coesione nazionale e, anche in quel caso, si delineerà un orizzonte non facile sul piano interno dell’organizzazione politica del paese. È noto che i talebani non siano un’organizzazione coesa e monolitica e presto si dovranno misurare con una gravissima e difficile questione economica.
PRESTO LA CRISI ECONOMICA
L’economia della guerra, del contrabbando di eroina, delle rapine e del traffico di armi (lasciate in grande quantità dagli Alleati) e uomini (e donne) può andar bene sino a quando chi ha assunto il potere non avrà il dovere di sfamare l’intero popolo del nascente emirato. Quando non si fa solo la guerra, non ci si limita ad azioni terroristiche o ad imporre regole «religiose» iniziano i problemi. Governare non è facile se non si ha il supporto di conoscenza di paesi amici e di esperti del settore amministrativo. Rimangono irrisolte e probabilmente senza risposta le seguenti domande:
Chi guiderà le banche? Chi assicurerà il servizio sanitario? Chi gestirà le fonti di energia elettrica? Chi gestirà la giustizia (non sommaria)? Chi si interesserà dei rapporti con l’estero dopo i colloqui di Doha (gestione delle ambasciate, rappresentanza nelle organizzazioni internazionali, relazioni con le organizzazioni umanitarie, eccetera)?
Svanita l’euforia della vittoria bisognerà iniziare a guardare alla realtà di tutti i giorni che non si risolve alzando bandiere dell’Emirato o imponendo la legge islamica. Purtroppo da oggi si passa all’interpretazione delle notizie e alle informazioni di chi riuscirà a lasciare il paese. Sentiremo le opinioni di chi non è stato mai a Kabul o non ha mai neanche fatto ingresso nell’ambasciata dell’Afghanistan a Roma.
Parlerà e scriverà chiunque possa sentirsi qualificato a «rompere il silenzio» che avvolgerà il popolo afghano. Allora ci preoccuperemo del terrorismo, ma questa è un’altra tragedia… anche questa «annunciata».