AFGHANISTAN, la caduta di Kabul. Le promesse del talebano: nonostante gli Accordi di Doha il futuro è incerto

Dietro l’avanzata delle milizie fondamentaliste c’è anche un accordo internazionale di più ampio respiro? Reggerà il patto stipulato in Qatar dagli «studenti islamici» con gli Usa? Cosa hanno ottenuto i cinesi dalla barbuta delegazione giunta nella Repubblica Popolare dalle montagne al confine col Pakistan? Questo è il preludio di uno stravolgimento definitivo delle situazioni in essere nel Medio Oriente? I talebani hanno bisogno di un riconoscimento, dunque oggi non gli conviene riaprire un «buco nero» in Asia centrale. Sui possibili sviluppi della situazione al momento è possibile esplorare alcune ipotesi, magari ricorrendo all’analisi della corposa massa di documenti di cui la CIA è venuta in possesso dopo l’eliminazione fisica di Osama bin Laden

 

Oggi è infatti possibile conoscere quella che era la visione del mondo di Bin Laden, nonché la strategia che fu alla base degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, questo grazie alla massa di comunicazioni interne ad al Qaeda delle quali si è venuti in possesso nel maggio 2011, a seguito del blitz effettuato dalle forze speciali statunitensi nella città pakistana di Abbottabad, laddove in un compound aveva trovato rifugio Osama bin Laden, la sua famiglia e parte dei suoi più stretti collaboratori, luogo dove il leader terrorista di origini saudite aveva trascorso i suoi ultimi anni e dove venne poi fisicamente eliminato.

THE BIN LADEN PAPER

Negli anni che seguirono quell’operazione dei Navy seals, il governo degli Stati Uniti declassificò alcuni dei documenti, mantenendone però la maggior parte nella esclusiva competenza della comunità di intelligence americana. Questo fino al novembre del 2017, quando la CIA (Central Intelligence Agency) declassificò ulteriori 470.000 file digitali consistenti in audio, foto, video e testi.

Di essi si è occupato Nelly Lahoud, Senior Fellow nel Programma di sicurezza internazionale presso New America e autore del saggio The bin Laden Papers, del quale è prevista a breve l’uscita nelle librerie. Egli ne riferisce nella sua approfondita e accurata analisi pubblicata recentemente dalla rivista di politica internazionale “Foreign Affairs” di settembre/ottobre 2021, dal titolo: al Qaeda ha cambiato il mondo ma non nel modo in cui si aspettava.

Assistito da due ricercatori, Lahoud in tre anni ha esaminato oltre 96.000 file includenti 6.000 pagine di testo in lingua araba, un importante complesso documentale relativo a quelle che furono le comunicazioni interne di al Qaeda tra il 2000 e il 2011.

Si tratta della corrispondenza di bin Laden con i vertici della sua organizzazione e delle lettere scritte dai membri della sua famiglia, oltreché da un taccuino di 220 pagine manoscritte, materiali che rivelano il punto di vista del capo di al Qaeda negli ultimi due mesi della sua vita, una visione della guerra al terrore attraverso gli occhi del suo obiettivo principale. Riflessioni che, tuttavia, si prestano anche a un’analisi della situazione attuale dell’universo armato islamista alla luce della caduta di Kabul nelle mani dei talebani.

DIVISIONI NEL CAMPO JIHADISTA

Dopo una disamina delle dinamiche che hanno interessato l’organizzazione jihadista guidata da bin Laden fino alla sua morte e, successivamente, dall’egiziano Ayman al-Zawahiri, nel suo lungo articolo Lahoud abbozza alcune possibili prospettive. Lo fa partendo dalla premessa che a due anni dalla scomparsa di Abu Bakr al-Baghdadi – «califfo» a capo di Islamic State (IS) che aveva messo in ombra al Qaeda, ma che di bin Laden fece poi la stessa fine – le divisioni in seno al campo jihadista persistono, seppure le formazioni armate del genere continuino a proliferare.

Secondo l’autore di The bin Laden Paper attualmente nessun gruppo dominerebbe all’interno della galassia nel modo come in passato lo fecero, anche se in diversa misura e con diverse modalità, al Qaeda e IS. Infatti, asserisce l’autore, «le loro concrete capacità spaziano dalle semplici minacce, al lancio di molotov, dagli attentati suicidi a quelli compiuti mediante auto bomba», mentre tali formazioni sarebbero in grado di controllare militarmente porzioni di territorio soltanto per un certo (breve) periodo.

Ma ora, dopo il ritiro delle forze occidentali e la riconquista di Kabul da parte dei talebani, tutti gli occhi sono puntati sull’Afghanistan, poiché è lì che si attendono gli eventuali sviluppi della prossima fase della lotta al terrorismo. Sottolinea Lahoud come nel martoriato Paese centroasiatico al Qaeda, IS e altri gruppi islamisti radicali mantengano propri operativi, quando non vere e proprie posizioni sul terreno. La loro esistenza e le loro potenzialità finora sono state oscurate dal conflitto che ha contrapposto il governo afghano e i talebani, ma ora, dopo il ritiro degli Stati Uniti, la loro minaccia si ripropone, anche in una eventuale funzione dialettica per il potere.

LE PROMESSE DEL TALEBANO

Si afferma che i qatarini, tra i principali mallevadori degli accordi faticosamente raggiunti lo scorso anno a Doha tra i talebani e l’amministrazione Trump, abbiano avuto molta pazienza nel corso delle difficili trattative che videro interloquire i membri delle delegazioni degli eredi del mullah Omar, del governo di Ashraf Ghani e degli americani, ma alla fine un intesa è stata raggiunta, con la condizione che i talebani si impegnassero solennemente a impedire a qualsiasi gruppo o individuo, inclusi quelli di al-Qaeda, di utilizzare l’Afghanistan allo scopo di minacciare la sicurezza degli Usa e dei loro alleati. Inoltre, si sono anche impegnati a impedire ad al-Qaeda e ad altri gruppi terroristici di reclutare e addestrare agenti o raccogliere fondi in territorio afghano.

Ora in molti si domandano se i talebani manterranno davvero le loro promesse; non solo: un altro interrogativo concerne cosa possano invece avere trattato i talebani con i cinesi, i russi e tutti gli altri Stati che confinano direttamente con l’Afghanistan o, comunque, sono a ridosso di quel paese. Una cosa è certa: nessuno di loro ha interesse alla riapertura di un pericoloso buco nero jihadista nel centro del continente asiatico.

A cominciare dagli stessi talebani, che al contrario hanno la fondamentale necessità di ottenere un riconoscimento internazionale che gli consenta innanzitutto di sbloccare tutti (o almeno buona parte) degli asset afghani che per il momento Washington ha congelato e inoltre, aspetto certamente non da poco, far rientrare nella dinamica dello sviluppo l’Afghanistan, inserendolo finalmente nelle dinamiche economiche continentali e globali, non ultima quella (mai arrestatasi) dell’oppio.

NON RIPETERE L’ERRORE DEL 2001

Tuttavia, i talebani non sono mai stati coesi, bensì un’aggregazione fluida di componenti diverse con programmi diversi, aspetto che costituisce un’incognita riguardo al futuro, poiché proprio a causa di questa faziosità potrebbe risultare difficile ai loro leader fare rispettare gli accordi a suo tempo stipulati con gli Usa. Divisioni intestine che, conclude Lahoud, potrebbero complicare anche l’esistenza delle organizzazioni terroristiche islamiste che cercheranno rifugio in Afghanistan.

Infatti, a una solidarietà ufficialmente dichiarata potrebbe non corrispondere la garanzia di un rifugio sicuro.

Rileva al riguardo James M. Dorsey nel suo intervento del 17 agosto scorso (BESA Center Perspectives Paper n. 2.135) che, finora, i talebani hanno lasciato inalterate le loro relazioni con gruppi terroristici in Afghanistan e questo rappresenterebbe un fattore chiave nella percezione del loro governo da parte della comunità internazionale.

«Se i talebani del 2021 sono diversi da quelli del 2001 – aggiunge Dorsey -,  non è perché abbiano moderato il loro oscurantismo religioso, ma perché non vogliono commettere il medesimo errore strategico di allora, quando fornirono ciecamente sostegno alle organizzazioni terroristiche jihadiste quali al-Qaeda», una scelta sbagliata che pagarono con la perdita del potere. Per l’immediato futuro dai talebani ci si attende dunque un atteggiamento improntato a una maggiore prudenza rispetto a quanto fatto in passato.

POSSIBILI STRUMENTALIZZAZIONI

In un rapporto redatto dall’Onu si afferma che che al-Qaeda è presente in almeno quindici province afghane, mentre la sua affiliata nel subcontinente indiano opererebbe sotto la protezione dei talebani nelle province di Kandahar, Helmand e Nimruz.

Ora, sintetizza Dorsey, se le relazioni di parte delle fazioni talebane con al-Qaeda non sono totalmente compromesse, lo stesso non si può affermare per quanto concerne quelle con l’affiliato afgano di IS, che invece sono tese. A questo punto, una ipotesi esplorabile potrebbe essere quella che i talebani strumentalizzino dei potenziali futuri scontri tra i due gruppi al fine di fornire alla comunità internazionale la prova dell’impegno da loro profuso al fine di impedire ai terroristi islamisti di operare dal suolo afghano.

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