Radio Radicale nasce dalla decisione assunta da Marco Pannella e dal gruppo dirigente del Partito Radicale nella seconda metà degli anni Settanta di rifiutare il finanziamento pubblico ai partiti, devolvendone quindi la somma a un soggetto autonomo, la nascente radio appunto. Dunque quello strumento di informazione non andrebbe definito come una “radio di partito”.
Oggi, però, il governo in carica presieduto da Giuseppe Conte, una coalizione formata da Lega e Movimento 5 Stelle, ha tagliato della metà il finanziamento erogato all’organo della Lista Pannella quale fonte per il servizio pubblico da essa svolto, la trasmissione dei resoconti delle attività parlamentari, finanziamento reso possibile dalla legge n. 230/1990.
Per far funzionare Radio Radicale vengono spesi all’incirca quindici milioni di euro all’anno, un costo coperto in parte dalla citata convenzione e per il rimanente dalle provvidenze previste dalla legge sull’editoria. Per diffondere dalle proprie frequenze dirette e differite delle attività del Parlamento – unico servizio per completezza attualmente reso in Italia – Radio Radicale non «può andare sul mercato» a raccogliere il denaro necessario sotto forma di introiti pubblicitari, come erroneamente affermato di recente dal Presidente del Consiglio dei ministri, poiché un servizio pubblico “non ha mercato”, sarebbe infatti impensabile fare concorrenza a un servizio pubblico che esiste già, un mastodonte delle dimensioni della Rai. Inoltre esso (il servizio pubblico, anche nelle forme di un’informazione a tassi estremamente “diffusi” come quella di radio Radicale) risulta co-essenziale a un sistema democratico, quindi indefettibile.
La motivazione ai tagli addotta è dagli esponenti della maggioranza giallo-verde è stata l’esigenza di riformare il sistema dei finanziamenti all’editoria – che, certamente, presta il fianco a diverse critiche -, tuttavia essa costituisce anche il vizio di fondo di questa operazione di natura politica, che è l’accomunamento del servizio pubblico svolto da radio radicale col problema dell’editoria.
Ma, se si riduce tutto a un problema di soldi, allora non è senza significato che in quella stessa legge che dimezza il finanziamento a Radio Radicale – impedendole di svolgere il servizio pubblico che oggi, tuttavia ancora per poco, ancora è in grado di svolgere – quello stesso esecutivo, però, stanzia ulteriori ottanta milioni a favore della Rai. Oltre cinque volte di più di ciò che nega all’emittente radicale, un “fuori sacco” rispetto a quanto previsto nel contratto di servizio stipulato con Viale Mazzini e a ciò che da esso ne deriva.
Sorge dunque un sospetto: e se le reali ragioni del provvedimento governativo non fossero di natura economica, bensì politica, cioè impedire che l’opinione pubblica conosca prima di deliberare? Infatti, il taglio del finanziamento, soffocando una delle poche voci libere condurrà al concreto risultato di limitare di l’informazione nel Paese.