REGNO UNITO, Brexit (1). Basterà un topless a fermare i brexiteers?

I tempi supplementari apparentemente senza fine stanno invece per avere termine e alla scadenza di essi si misureranno concretamente le conseguenze dell’uscita di Londra dall’Unione europea. Intanto a Londra l’esecutivo May è sempre più debole e va sotto di quarantacinque voti alla Camera dei Comuni. Inoltre si dimettono due suoi elementi chiave, Davis Michael Davis, ministro della Brexit, e Boris Johnson. Si profila il “neverendum”?

C’è poco da fare, quando ci si mettono gli inglesi riescono davvero a stupire. Giovedì 14 maggio, in diretta televisiva la nota conduttrice del talk-show “The Pledge” in onda su Sky Television, in segno di protesta contro la Brexit a un certo punto della trasmissione ha iniziato a slacciare i bottoncini della sua camicetta color senape mostrando il seno nudo. Quelle grazie, non più freschissime ma certamente ancora molto attraenti, hanno colpito i telespettatori, e il risultato è stato quello di guadagnare le home page dei siti di informazione in Internet e le prime pagine dei giornali scandalistici, oltre ovviamente al diluvio di commenti sui social forum.

Fin qui tutto (quasi) normale, dato che al giorno d’oggi la società della comunicazione si presta spesso a fungere da contenitore all’interno del quale si compongono le manie di protagonismo di taluni, spesso unite al desiderio di emergere mediaticamente, formando miscele esplosive come quella che è deflagrata l’altro giorno davanti alle telecamere del gruppo Murdoch. Già, perché quella donna non è una giornalista qualsiasi, poiché ella risponde al nome di Rachel Johnson, sorella di Boris Johnson, il politico conservatore al quale vanno ascritte parte delle responsabilità in ordine alla situazione di stallo e incertezza nella quale è sprofondato il suo paese.

È innegabile che alla base di questo confuso e contestato processo di affrancamento dall’Unione europea risiedano ragioni di natura strettamente politica, un aspetto che spiega anche l’apparente inconsapevolezza dell’opinione pubblica britannica riguardo alle concrete conseguenze che si prospettano, soprattutto nel campo economico ma non solo, come conseguenza di questa grave scelta. Probabilmente il messaggio percepito dalla gente è stato inviato in modo da non consentirne l’adeguato apprezzamento, e questo proprio nella cruciale fase dei negoziati con Bruxelles. Un referendum indetto come consultivo che aveva invece immediatamente assunto la sostanza di una consultazione deliberativa. Un atto di democrazia diretta che, attraverso l’applicazione da parte di Downing Street dell’articolo 50, ha impresso un fondamentale cambiamento alla politica estera ed economica del Regno Unito. Perché si giunti a questo punto?

È molto facile rispondere a questa domanda: perché Brexit non nasce dalle conseguenze dei rapporti in essere tra Londra e Bruxelles, bensì quale effetto dei timori dei leader del Partito conservatore di subire un’emorragia di consensi in un elettorato alla deriva verso l’United Kingdom Independence Party (Ukip), la formazione di della destra sovranista e anti-sistema guidata da Nigel Farage. I timori dei Tory non erano infondati, poiché nel 2014 l’Ukip nei sondaggi veniva dato in crescente avanzata, un fenomeno che i vertici del Partito conservatore non sottovalutarono, vedendosi costretti a elaborare in fretta una strategia di contenimento del pericoloso avversario. Nel disperato tentativo di riassorbire almeno parte dei consensi travasatisi nella formazione di Farage, non esitarono a utilizzare anche una buona dose di demagogia. Essi fecero assumere posizioni oltranziste al proprio partito, adottando una “narrativa” apertamente ostile all’Unione europea e ai suoi programmi. Il mantra divenne quello che Bruxelles non sarebbe stata capace di fornire risposte ai disagi dei cittadini britannici causate dalla crisi economica, questo perché «i vincoli europei impedivano una opportuna legislazione di merito nel Regno Unito».

Un gruppo quello dei Tories, che al proprio interno non è mai stato coeso, adottando soltanto in extremis una linea comune che provasse a rispondere alle impellenti necessità dettate dal contesto politico. A quel punto hanno ritenuto opportuno “cavalcare la tigre” del malcontento popolare alimentandolo. Lo hanno fatto in un paese membro che nella sua storia aveva beneficiato sempre dei vantaggi di quel sodalizio, nonostante fosse rimasto anche al di fuori della moneta unica. Una scommessa rischiosa che alla fine ha portato velocemente al referendum. È innegabile che all’origine di questo cambiamento epocale così controverso e rischioso risiedano le scelte politiche azzardate di David Cameroon. Lui e il suo gruppo dirigente hanno fatto scivolare il Paese sul piano inclinato del referendum. Oltre a cercare di frenare l’emorragia di consensi del partito conservatore, essi ritennero di ottenere maggiori concessioni da Bruxelles. Lo fecero animati da una pessima e deleteria riserva mentale, convinti di poter forzare i partner dell’Ue usando l’arma del ricatto referendario ritenendo che la maggioranza dei loro concittadine si sarebbe espresso contro la Brexit. Ma sbagliarono di grosso i loro calcoli, non tenendo bene in conto l’accentuato malcontento sociale che avrebbe pesato in maniera determinante sul voto. In seguito errori vennero poi commessi nel corso dei negoziati sulla separazione, con Londra che azzardava ancora pensando di poter risolvere tutto con un accordo stipulato in extremis, dopo aver tirato la corda fino all’ultimo. Un altro errore, la May ha ritenuto di poter ottenere il favore della Camera dei Comuni mettendola di fronte al “No Deal” inanellando però una serie di sconfitte che hanno messo seriamente in pericolo la tenuta stessa del suo fragile esecutivo.

Ma non è esente da colpe neppure la controparte, un campo nel quale l’abilità del negoziatore Michele Barnier ha reso all’esterno l’immagine di un’Unione europea coesa, laddove in realtà al suo interno  era profondamente composita. Ma, la necessità di unificare una aggregazione a tal punto variegata ha imposto quale condizione la rigidità nel negoziato con Londra, investendo inesorabilmente meccanismi e modi di definizione delle clausole dell’accordo. Una rigidità che nell’ambito di un negoziato in forma bilaterale sarebbe stato possibile evitare, improntando i colloqui a una maggiore flessibilità. Basterà, adesso, un topless ad arrestare il meccanismo quasi fuori controllo che sta conducendo alla cessazione dei rapporti senza un accordo? Probabilmente no. Comunque, ancora non tutto è perduto, qualcosa infatti potrebbe ancora succedere, malgrado il tempo rimasto sia sempre di meno.

Proprio il 14 febbraio, giorno del provocatorio spogliarello in diretta TV, mentre a Londra si andava consumando l’ultimo atto in cartellone della drammatica commedia politica in scena alla Camera dei Comuni, con Jeremy Corbyn, il leader laburista in procinto di incontrare a Bruxelles il capo negoziatore della UE Michel Barnier, che – evidentemente non a torto – criticava duramente la linea, a suo dire, «evasiva» della premier, a Bruxelles le orecchie indiscrete di un giornalista carpivano dalla bocca di Oliver (Olly) Robbins – braccio destro della premier conservatrice nelinegoziati con l’Ue – quella che è stata definita come “la strategia” della May. Attendere fino all’ultimo momento utile per far votare a Westminster lo schema di accordo già bocciato il mese scorso, in modo che, se i parlamentari cassassero per l’ennesima volta questa ipotesi ella chiederebbe di allungare ulteriormente i tempi dell’uscita attraverso una proroga dell’articolo 50 de Trattato di Lisbona che disciplina la procedura delle fuoriuscite dall’Unione dei Paesi membri.

Il governo britannico non ha smentito con eccessiva convinzione la notizia resa nota dai media, confermando invece che Londra stava lavorando per trovare un accordo prima dell’uscita prevista al 29 marzo prossimo. L’indiscrezione ha in ogni caso suscitato le preoccupazioni degli euroscettici, che temono il “perpetuo” rinvio della Brexit. Essi sono perfettemente consapevoli che la May stia cercando disperatamente di prendere tempo e, fiutata la brutta aria che tira, hanno inviato dei chiari segnali alla premier, mandando in minoranza il suo debole esecutivo.

Infatti, sempre il 14 febbraio la coalizione a guida conservatrice è andata sotto di quasi cinquanta voti sull’emendamento relativo alla mozione non vincolante precedentemente presentata dal governo che chiedeva alla Camera dei Comuni una proroga del sostegno alla politica della May. Nella mozione, per altro, si continuava ad assicurare di voler comprendere nei negoziati il dirimente tema del backstop, cioè la clausola di salvaguardia sul confine tra il Regno Unito e l’Eire, che passa per il problematico Ulster.

Per la premier si tratta di un’altra sconfitta, che rimarca ulteriormente la sua scarsa forza contrattuale sia interna che esterna, dato che pochi giorni prima lei stessa aveva garantito alla controparte di Bruxelles di godere di una piena maggioranza a Westminster. Londra finora non ha ricevuto dall’Unione europea quelle garanzie legali che gli avrebbero garantito maggiore coesione all’interno della coalizione, che come è noto basa la sua precaria esistenza sui pochi voti del Democratic Unionist Party (DUP), la formazione politica conservatrice nordirlandese che funge da fondamentale stampella per il governo attualmente in carica. Ma il voto contrario aggrava la situazione, poiché dimostra l’inesistenza di una solida maggioranza. Ma il tempo non si può fermare con un emendamento e il 29 marzo si avvicina sempre di più. È una corsa contro il tempo per evitare che con le inesorabili lancette dell’orologio scattino anche le procedure automatiche di uscita – e si tratterebbe della temuta “hard Brexit” – previste nel caso in cui non si raggiungesse un accordo. Anche perché se così non fosse vorrebbe dire che, nonostante il pronunciamento nel referendum, i britannici resterebbero a tutti gli effetti membri dell’Ue e i loro deputati a Strasburgo avrebbero diritto di voto nella sessione prevista per il 26 maggio seguente. È davvero tutto maledettamente complicato. Una complessità per altro aggravata dall’incertezza di fondo riguardo alla reale comprensione della situazione da parte dei decisori di Londra, una incertezza che si riflette poi sull’opinione pubblica.

Da due anni i parlamentari britannici si esprimono infatti nei modi più disparati e, accanto al convincimento più o meno radicato della necessità e utilità di un’uscita, incidono però sulle dinamiche in atto anche calcoli di natura politico-elettoralistica. Infatti, la Brexit viene anche utilizzata strumentalmente a fini particolari sia dei deputati al parlamento che dei vari gruppi di potere. Sulla base di questa lettura dei fatti, Brexit, di per sé, non costituirebbe una priorità per la politica del Regno Unito, in quanto a predominare rispetto alle relazioni con l’Ue sarebbe invece l’agenda interna. L’opposizione laburista, anch’essa euroscettica, punta a nuove elezioni politiche. Corbyn sa bene di avere il vento in poppa (almeno per ora) e attacca continuamente il governo conservatore. Tuttavia, il 30 gennaio per la prima volta ha accettato di incontrare la may a un tavolo negoziale e le chiede garanzie che non si prevenga a un “No Deal”. Corbyn sconta però il clima di diffusa paura suscitata da un suo possibile ingresso a Downing Street, infatti, per gli standard britannici l’attempato ma vivace leader viene considerato eccessivamente a sinistra persino da alcuni settori del suo stesso partito.

Dal canto loro, i conservatori vedono nelle elezioni anticipate un vero e proprio spettro da allontanare a tutti i costi, questo seppure negli ultimi giorni si siano verificate defezioni di personaggi di spicco del partito del calibro di Davis Michael Davis e Boris Johnson. La priorità dei Tories è quella della permanenza al governo. Che succederà adesso? Restano ancora degli spazi aperti per un secondo referendum? Di questa estrema possibilità che potrebbe rimettere tutto in discussione non si è mai smesso di parlare.

Si tratta dell’ipotesi “neverendum”, un altro dei tormentoni senza fine di questa storia che si trascina da due anni. La May ha sempre escluso l’eventualità di un ritorno alle urne, dunque l’unico modo per tornare al voto dipenderebbe da una pronuncia in tal senso del parlamento. Obbligati a fare i conti con la realtà, alla fine i rappresentanti alla Camera dei Comuni si vedrebbero costretti a scongiurare i rischi di una disastrosa uscita del Paese dall’Unione europea, un referendum quale unica soluzione percorribile rimasta per scongiurare l’hard Brexit. Ma anche qui c’è ambiguità in seno all’universo conservatore, dove le paure si bilanciano alimentando le incertezze. Coloro i quali nell’ombra remano contro la premier, non riuscendola a sfiduciare potrebbero accarezzare con sempre maggiore convinzione l’ipotesi di un nuovo referendum, tuttavia, in questo modo si esporrebbero ai rischi di una perdita del proprio elettorato, che, espressosi per il “Leave” nella precedente consultazione vedrebbero messo in discussione il risultato acquisito. E poi, quale quesito verrebbe posto agli elettori sulla scheda? Il tempo a disposizione del governo britannico sta per scadere, ma anche l’opposizione è parte del gioco.

A fine marzo si deciderà tutto, con o senza la rinegoziazione di tutti i legami in essere tra Regno Unito e Unione europea, cioè centinaia di trattati stipulati nel corso di questi ultimi decenni. Ci sarà un lieto fine oppure si andrà incontro al caos? In ogni caso una cosa è certa: tra le tante conseguenze di questa lunga e controversa vicenda che rifletteranno sull’Europa ci sarà anche il condizionamento delle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo indette per il prossimo maggio.

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