AFGHANISTAN, ritiro NATO. L’armata se ne va, ma nel Paese centro asiatico restano le incognite sul futuro

Dopo venti anni di presenza militare costata centinaia di morti e un sacco di soldi, i militari della forza di pace e stabilizzazione abbandona il martoriato Paese centro asiatico dove era stata inviata venti anni fa dopo la sconfitta dei talebani del mullah Omar. Era nell’aria da tempo, poiché a Washington già prima di Trump erano state rinvenute altre priorità, sia sul piano interno che internazionale (i cinesi, il Pacifico e la Russia). Ora è molto probabile che a Kabul si riapra un pericoloso buco nero. Infine il ritiro della NATO, l’operazione militare più pericolosa in questo genere di missione: insidertrend.it ne ha discusso con il generale Giorgio Battisti, che ha comandato in ISAF a partire dal 2001

Il quadro della situazione è disarmante: le forze della NATO si apprestano a lasciare l’Afghanistan dopo venti anni di operazioni militari contro i talebani e i loro alleati e continui tentativi di stabilizzazione del Paese. Già, poiché i negoziati che in questi ultimi anni hanno avuto luogo in Qatar, che hanno visto allo stesso tavolo gli americani e la loro controparte afghana, cioè quei talebani ritenuti «più moderati» e quindi disposti a trattare, non erano negoziati di pace, bensì trattative finalizzate a al disimpegno di Washington da quel mortifero e costoso teatro operativo.

Un dialogo, quello con la fazione pragmatica degli islamisti afghani a Doha, che a un certo punto, nel 2019, a causa dell’unilateralismo in politica estera dell’amministrazione statunitense presieduta da Donald Trump si era trasformato in un dialogo diretto tra la Casa Bianca e i talebani, in qualche modo qualcosa «tutta loro» e, come è noto, poi l’intendenza segue. Infatti, in seguito si sono registrati gli effetti di indirizzo di questa politica assertiva sulle scelte degli alleati occidentali.

Chi visse sperando…

Un disimpegno militare che si colloca in un quadro generale di confusione e, cosa ancora più grave, nella sostanziale assenza di un concreto accordo di pace tra le parti, dunque, il possibile prologo di un film già visto, quello della relativamente lenta agonia del regime di Najibullah dopo il ritiro dell’Armata rossa sovietica.

Parola d’ordine: «Exit strategy!», con l’auspicio che gli studenti islamici afghani a fronte dell’abbandono del campo da parte della NATO assumano e onorino l’impegno di recidere ogni legame con gruppi e organizzazioni jihadiste che ambiscono a una propria proiezione globale.

Persino la data ufficiale scelta quale termine ultimo per il ritiro è oltremodo infelice: l’11 settembre; chissà, magari sarà stato  il frutto del parto mentale di qualche comunicatore che ha sbagliato mestiere, poiché ciò che evoca nella memoria collettiva quella particolare giornata, qualora abbinato a un ritiro del genere non può che galvanizzare ulteriormente gli jihadisti in tutto il mondo.

Gli ultimi giorni di Kabul

Non è detto che accada, tuttavia è nei progetti dei talebani: dopo il disimpegno militare della NATO le autorità attualmente al potere a Kabul dovranno sparire dalla circolazione, in un modo o  nell’altro.

Infatti, è difficile pensare seriamente a una ripresa in termini positivi del dialogo intra-afghano una volta che i talebani, seppure divisi al loro interno, avranno rimesso piede nella capitale, così come è difficile ritenere che le forze armate e quelle di sicurezza formate e addestrate in questi venti anni dai peacekeeper siano in grado di contenere e successivamente rintuzzare il nemico. Altro che venirne a patti, lì sono in molti a guardarsi attorno in prospettiva di un «salto della quaglia o, in alternativa, di una celere fuga dal Paese.

Insomma, entro la fine dell’estate i militari della forza multinazionale NATO saranno fuori dall’Afghanistan, però, in tutti questi anni si è sempre affermato che, dato il perdurante stallo sul campo di battaglia, una soluzione al conflitto afghano si sarebbe potuta trovare esclusivamente attraverso un processo di pace.

L’accordo di Doha

Secondo il generale Battisti quello raggiunto a Doha da americani e talebani «non è stato tanto un accordo di pace, quanto un accordo di resa da parte di Washington», almeno agli occhi degli afghani. Intanto, va anche rilevato che gli stessi talebani non hanno reciso del tutto i loro rapporti con al-Qaeda, inoltre, nelle aree a cavallo del confine con il Pakistan e nel territorio pakistano stesso sono attivi almeno una ventina di gruppi armati di islamisti radicali.

Senza dimenticare poi Islamic State, che combatte per strappare porzioni di terreno anche ai talebani.

«Nell’intervista trasmessa ieri dalla BBC – prosegue Battisti – un portavoce dei talebani ha dichiarato che la sua parte “ha già vinto il conflitto”, punto. Si tratta di una premessa molto pericolosa per gli afghani che resteranno nel loro paese, soprattutto per quelli accusati di tradimento perché hanno collaborato a vario titolo con gli stranieri, e questo sarà un problema».

Washington si impegna a supportare il Paese centroasiatico sui piani diplomatico, economico e umanitario, tuttavia bisognerà poi verificare se questo sarà sufficiente, anche perché una volta che la forza militare multinazionale si sarà disimpegnata dall’Afghanistan diverrà difficile controllare il reale impiego degli aiuti sul posto.

Tutti a casa, ma come?

Infine, il ritiro vero e proprio della forza multinazionale, cioè la fase della missione che, in assoluto, maggiormente espone le unità all’atto del loro disimpegno, decine di migliaia di uomini e una massa enorme di materiali, anche estremamente sofisticati.

«Al tempo del ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan – ricorda Battisti -, malgrado i sovietici avessero preso accordi con le varie formazioni dei mujahiddin della zona con l’Urss, quando si apprestarono ad attraversare il Passo di Salang dovettero comunque combattere, perché la tregua non venne da tutti rispettata».

Per la NATO sarà ancora più problematico, perché in questi venti ani di missione i contingenti inviati in Afghanistan si sono appesantiti molto in termini logistici. «Evacuare centinaia di mezzi e materiali della più disparata natura richiederà uno sforzo logistico sensibile. Allora, la valutazione da fare è: lasciamo tutto lì e andiamo via “alleggeriti”, perché è impossibile fare uscire queste forze dal Paese se non per via aerea. Ma gli aeroporti sono pochi e la capacità di movimento dei voluminosi velivoli da trasporto strategico è conseguentemente limitata».

Poiché l’unica alternativa sarebbe quella di incolonnare autocarri e carri armati sull’impervia e pericolosa strada in direzione del porto pakistano di Karachi, un itinerario lungo più di 1.500 chilometri.

Nell’intervista rilasciata a insidertrend.it, il generale alpino Giorgio Battisti ha illustrato nel dettaglio le dinamiche che hanno portato a questa situazione, oltreché le, purtroppo non rosee, prospettive; l’audio integrale di essa è fruibile di seguito (A317)

A 317 – AFGHANISTAN, RITIRO DELLA NATO: L’ARMATA SE NE VA, MA LASCIA DIETRO DI SÉ NUMEROSE INCOGNITE RIGUARDO AL FUTURO DEL PAESE. A insidertrend.it parla il generale GIORGIO BATTISTI, ufficiale alpino in ausiliaria già più volte comandante in ISAF in Afghanistan e, attualmente, responsabile del Dipartimento militare del Comitato atlantico italiano, organismo istituzionalmente riconosciuto dal Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale.
Alla fine, dopo venti anni di presenza militare costata centinaia di morti e un sacco di soldi, i militari della forza di pace e stabilizzazione abbandona il martoriato Paese centro asiatico dove era stata inviata venti anni fa dopo la sconfitta dei talebani del mullah Omar. Era nell’aria da tempo, poiché a Washington già prima di Trump erano state rinvenute altre priorità, sia sul piano interno che internazionale (i cinesi, il Pacifico e la Russia).
Ora è molto probabile che a Kabul si riapra un pericoloso buco nero. Infine il ritiro della NATO, l’operazione militare più pericolosa in questo genere di missione: ne abbiamo discusso con il generale Giorgio Battisti, che ha comandato in ISAF a partire dal 2001.
Nell’intervista rilasciata a insidertrend.it il generale alpino Giorgio Battisti (già comandante a vari livelli nell’ISAF e attualmente responsabile del Dipartimento militare del Comitato atlantico italiano) illustra nel dettaglio le dinamiche che hanno portato a questa situazione, oltreché le, purtroppo non rosee, prospettive.
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