La notizia è stata battuta dalle agenzie di stampa nelle ultime ore: in Libia le guardie petrolifere (PFG) minacciano il blocco di pozzi, terminali e raffinerie per questioni salariali. Si tratta degli appartenenti a quel particolare corpo militarizzato che nel Paese nordafricano si occupa del mantenimento in sicurezza delle strutture produttive di materie prime energetiche. Lo ha reso noto il sito web di informazioni “Lybia Observer”, che ha riferito anche della chiusura del porto di Hariga, sulla costa orientale.
Sono le stesse PFG che nel 2020, alleatesi con alcune milizie tribali vicine al generale Khalifa Haftar, avevano imposto un blocco delle esportazioni di greggio causando al Paese perdite per oltre otto miliardi di dollari.
Un incipit utile a introdurre il contributo alla comprensione di uno scenario conflittuale proteiforme che ci viene fornito dal generale in ausiliaria Giuseppe Morabito, attualmente membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation.
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Nell’ultimo anno, le forze armate della Turchia sono state pioniere nell’utilizzo di nuove tecnologie militari, come droni molto efficaci, metodologie di ricognizione, sistemi di difesa aerea e l’ampio ricorso ai mercenari. Sia in Libia che in Nagorno-Karabakh queste innovazioni hanno permesso a chi era sostenuto da Ankara di invertire la situazione iniziale del corso della guerra. Ma la cosa più preoccupante per l’Occidente è stata e rimane l’impego di mercenari da parte di un paese alleato e membro della NATO.
In Libia la battaglia per Bengasi, combattuta dal 2014 al 2017, è stato un lungo scontro di logoramento conclusosi a seguito di sanguinosi episodi strada per strada, che hanno provocato numerose vittime tra i civili e, spesso, violazioni dei diritti umani da parte di tutti i contendenti.
Dopo una prima vittoria, il generale ribelle Khalifa Haftar e il suo Esercito di liberazione nazionale (LNA) hanno condotto successive operazioni nella zona di Derna all’inizio del 2019 (questi scontri ancora una volta con violazioni dei diritti umani), quindi avviato un’offensiva nel sud, che li ha portati dapprima a conquistare il più grande giacimento petrolifero del Paese, poi occupare le aree logistiche che in seguito avrebbero facilitato e sostenuto l’assalto alla capitale Tripoli.
Haftar era consapevole che il suo attacco sarebbe stato percepito in molti ambienti come una violazione del diritto internazionale, cioè l’equivalente di un attacco militare non provocato portato contro un governo riconosciuto a livello internazionale del Presidente Serraj (GNA: Governo di Accordo Nazionale).
Indipendentemente dall’animosità popolare che avrebbe creato tra gli abitanti di Tripoli, egli sperava in una rapida occupazione della città. Aveva bisogno che la sua azione fosse sia rapida sia relativamente incruenta per mantenere l’acquiescenza della sua base di appoggio tra le tribù orientali e non per alienare la popolazione di Tripoli che, sperava, avrebbe probabilmente accettato il suo governo.
Per come sono andate le cose, l’azione è stata tutt’altro che breve e veloce, infatti, l’iniziale assalto a sorpresa non ha indotto alle sperate defezioni da parte dei miliziani maggiormente capaci alleati con il GNA. Inoltre, l’assalto del LNA ha sofferto di una pessima visibilità nazionale e internazionale a causa della scelta strategica di Haftar di farlo iniziare il giorno 4 aprile 2019, immediatamente prima della conferenza di Ghadames mediata dalle Nazioni Unite.
Quando Haftar ha iniziato la sua guerra a Tripoli, l’LNA ha dovuto affrontare un ambiente operativo difficile, caratterizzato da un’elevata densità di popolazione combinata con periferie urbane relativamente aperte e una caotica rete stradale interna che poteva facilmente portare a battaglie strada per strada e pesanti vittime civili se mai i combattimenti fossero arrivati al centro di Tripoli.
Inoltre, a differenza delle forze islamiche disordinate, che aveva precedentemente affrontato a Bengasi o Derna, le forze anti-LNA nella regione occidentale erano relativamente meno ideologiche, meglio organizzate, più numerose e, soprattutto, molto meglio fornite ed equipaggiate. Possedevano artiglieria, carri armati, consiglieri stranieri professionisti e sistemi di difesa aerea – elementi che gli oppositori del LNA avevano evidentemente mancati a Bengasi e Derna.
È in questo momento storico che inizia il massiccio impiego di mercenari nella guerra di Libia. Dal maggio del 2019, con il coinvolgimento di Turchia e Russia nel conflitto sono arrivati in Libia mercenari dal Ciad e alcuni ribelli del Darfur. Poi, non sono mancate le forze di supporto sudanesi, i combattenti libici Toubou e ciadiani nel sud per difendere campi e piste di atterraggio e combattenti russi per lavori più tecnici.
In particolare, la Turchia aveva iniziato a rischierare i terroristi anti-Assad dalla Siria come truppe di terra già nel 2019, subito dopo la firma degli accordi marittimi e militari intercorsi con il GNA.
Come detto, la maggior parte di questi combattenti apparteneva all’esercito nazionale siriano «reclutato» da Erdoğan per contrapporlo al governo di Assad sostenuto da Mosca.
La di essi proveniva da due formazioni: la Brigata Sultan Murad (composta in parte da turkmeni dell’area di Aleppo e autoproclamatasi quale gruppo islamista) e la Brigata al-Sham (principalmente da Idlib e designata come organizzazione terroristica dagli Usa). Molti altri provenivano poi dalla Brigata al-Mu’tasim (Aleppo) e da Jabhat al-Nusra (una parte di al-Qaeda).
Nella loro massima parte questi gruppi erano ben addestrati ed esperti nella cooperazione e al supporto al combattimento delle forza armate turche. Fino a metà gennaio, soltanto mille siriani erano stati schierati in LIbia, ma quelle cifre sono aumentate rapidamente e hanno raggiunto 10-12.000 uomini in maggio, alcuni dei quali jihadisti che Ankara desiderava mandare il più presto possibile via dalla Siria e dal suo territorio.
A causa dei loro interessi in Libia, i turchi non si sono limitati a introdurre i mercenari, bensì anche le già citate armi tecnologiche di notevoli capacità militari. Poiché tuttora paese aderente alla NATO, oltreché con anni di esperienza nell’addestramento e nell’organizzazione di milizie siriane e nel rifornimento di difese aeree contro il governo siriano di Assad, la Turchia già possedeva le capacità tecniche e strategiche necessarie soprattutto all’impiego dei letali droni in combattimento.
Questo ha dimostrato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che le norme internazionali e persino le risoluzioni dell’ONU non sono più in grado di impedire l’introduzione sfrenata di sofisticati sistemi d’arma e operativi in guerre civili precedentemente a bassa intensità e bassa tecnologia. Il governo turco non ha , quindi, mostrato nessun rispetto delle regole imposte da essere membro di ONU e NATO.
Anche se è improbabile che le truppe di terra mercenarie vincano guerre civili in situazioni estreme, la battaglia per Tripoli ha dimostrato che l’esito di un conflitto può cambiare radicalmente non appena i sostenitori di una parte sono disposti a contemplare un’escalation “non convenzionale e non rispettosa della Convenzione di Ginevra”, qualcosa di maggiore di quella dei loro nemici e della comunità internazionale, quest’ultima carente nella determinazione e nel potere necessari per arrestare le escalation.
Nel caso libico, sebbene l’LNA e i suoi sostenitori (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia) siano stati descritti da alcuni come «aggressori», in seguito hanno dimostrato una chiara mancanza di volontà per un’escalation indefinita.
La Turchia, invece, possedeva le capacità, militari e non, necessarie per prevalere e poi è stata disposta a impiegarle a seguito dei calcoli geopolitici entrati in gioco dalla fine del 2019.
Tutti questi atti, a partire dall’aggressione iniziale fino alle successive escalation, si sono verificati nello stesso momento in cui tutti, in aperta malafede, affermavano di rispettare esteriormente l’embargo sulle armi. Se uno delle principali attori a livello mondiale, come l’Unione europea, si tiene fuori da un conflitto alle sue porte ,sia per ragioni legali sia morali, deve in seguito essere disposto a convivere con qualunque risultato emerga.
Sebbene molti Paesi europei fossero coinvolti militarmente e diplomaticamente nella guerra civile libica, in particolare Francia, Italia e Grecia, l’UE come istituzione non ha trovato un modo coerente o efficace per mettere fine alla crisi in Libia, forse perché i loro governi erano “distratti” dal necessario contrasto alla pandemia proveniente dalla lontana Cina.
In effetti, data la natura profonda degli interessi dell’UE in gioco e la vicinanza all’Europa, l’UE è stata notevolmente passiva durante la guerra libica e ora deve affrontare il problema di mitigare l’impatto negativo di una presenza turca e russa in Libia.
Infine ecco due domande che dovrebbero togliere la serenità alle democrazie europee: dove andranno i tagliagole mercenari sponsorizzati dalla Turchia dopo le attività in Libia?
Arriveranno in Europa con un passaporto e una carta di credito turca o, addirittura azero, via Mediterraneo?
Infatti, è noto che alcuni di loro (ma non tutti) siano stati “reimpiegati” dalla Turchia in Nagorno Kabarakh a favore dell’Azerbaigian ma gli altri non si sa dove siano…