di Giuseppe Morabito, membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation – Il giorno dell’Epifania, Antony Blinken, candidato al ruolo di segretario di Stato per l’amministrazione Biden, già vice Segretario di Stato durante l’amministrazione di Barack Obama, ha dichiarato: «Gli arresti, effettuati in modo radicale, dei manifestanti a favore della democrazia sono un attacco a chi coraggiosamente difende i diritti universali. L’amministrazione Biden-Harris starà con il popolo di Hong Kong e contro il giro di vite di Pechino sulla democrazia».
La situazione a Hong Kong è strettamente legata a quella di Taiwan, l’isola con governo democratico e ventitré milioni di abitanti che Pechino considera parte integrante del suo territorio.
Il 9 gennaio, Michael Pompeo, attuale segretario di Stato sotto la presidenza Trump, ha voluto rimarcare ancora una volta che: «Taiwan è una vivace democrazia e un partner affidabile degli Stati Uniti, anche se per diversi decenni il Dipartimento di Stato ha creato complesse restrizioni interne per regolare le interazioni dei nostri diplomatici, membri di servizio e altri funzionari con le loro controparti taiwanesi. Il governo degli Stati Uniti ha intrapreso queste azioni unilateralmente, nel tentativo di placare il regime comunista di Pechino», aggiungendo poi che: «Oggi revocherò tutte queste restrizioni autoimposte».
Come è noto, gli Usa intrattengono rapporti con partner non ufficiali in tutto il mondo e Taiwan non fa eccezione. Washington e Taipei condividono valori comuni di libertà individuale, stato di diritto e rispetto della dignità umana, per questo motivo le dichiarazioni di Pompeo e di Blinken certificano, oltre ogni dubbio legato alla controversa e litigiosa procedura di passaggio di consegne, che le relazioni tra l’America la Cina Popolare e Taiwan, oltreché quelle in tutto il Mare Cinese, non devono (o meglio non dovrebbero) venire ostacolate da restrizioni antidemocratiche di qualsiasi tipo.
In merito, quasi tutte democrazie del mondo hanno un notevole bisogno di un approccio coerente per trattare con la Cina.
È evidente che Pechino rappresenta il potere ascendente del XXI secolo, ma anche paese che diffida del libero mercato e apparentemente poco predisposto al rispetto dei diritti umani. Tuttavia, gli eventi recenti mostrano quanto sia diventata poco efficace la politica e l’azione diplomatica di eventuale contenimento delle azioni messe in atto dal governo cinese sia dei paesi occidentali sia del loro strumento di possibile coercizione, la NATO.
Il 30 dicembre l’Unione europea e la Cina hanno annunciato il Comprehensive Agreement on Investment (CAI), un accordo bilaterale per gli investimenti che apre il mercato cinese alle imprese dei paesi membri dell’Ue.
Le negoziazioni per l’accordo avevano avuto inizio sette anni fa e in questo periodo sono state ottenute alcune concessioni da parte di Pechino. In generale, l’accordo garantisce agli investitori europei l’accesso, come mai fino a oggi, a diversi settori del mercato cinese, quali la finanza, le telecomunicazioni e quello delle automobili elettriche e ibride.
Per la Cina, i vantaggi sono soprattutto di carattere geopolitico e la sintesi è che, nonostante la situazione indicata in precedenza, Bruxelles e Pechino hanno concluso un accordo sugli investimenti che renderà ancor più interdipendenti i due blocchi economici anche se esistono ancora dubbi che si prospettino guadagni importanti per l’Ue.
Inoltre non mancano sia le già citate critiche per le violazioni dei diritti umani in Cina sia malumori nel team sia cura la transizione Usa di Biden. Tra l’altro, il Congresso americano finora non è riuscito nemmeno ad approvare un disegno di legge per tentare d proteggere in qualche modo gli Uiguri. L’etnia uigura, a maggioranza musulmana e originaria della regione autonoma cinese dello Xinjiang è, infatti, oggetto, da decenni, di una feroce repressione da parte di Pechino.
Tale contingenza per confermare che mentre l’Occidente non decide e fa poco, facendosi attrare dagli accordi economici, la Cina continua, quantomeno, a reprimere chi non appoggia le decisioni governative, o vi si oppone, ed espandere la sua influenza all’estero.
Come già indicato e rilevato da Blinken, il 6 gennaio più di cinquanta attivisti per la democrazia sono stati arrestati a Hong Kong e, nonostante tale modo di agire, a novembre prima della accordo CAI, la Cina ha comunque firmato un patto commerciale con quattordici paesi asiatici, inclusi degli alleati storici degli americani come Giappone e Singapore.
Inoltre, come se non bastasse, in queste ore Pechino continua a minacciare l’Australia non accettando le critiche sia con attività diplomatica sia con un parziale embargo commerciale.
La Cina sta sfruttando la “confusione da virus” anche perché la sua economia sta tornando a galla dopo pandemia, soprattutto perché la crescita su base annua è stata del 4,9% nel trimestre più recente.
Chiaramente i governanti di Pechino sperano che l’amministrazione Biden inizialmente sia preoccupata per i problemi interni non ultimo il virus al momento non ancora lontano da essere sotto controllo. Infatti, la massiccia produzione di vaccini e la loro distribuzione sono comunemente riconosciute come “l’inizio della fine “ e non “la fine” della stagione pandemica iniziata a Wuhan.
Anche se l’Europa ha accolto con favore le indicazioni fatte filtrare da Biden sulle future politiche americane, permane il timore che siano improntate al protezionismo ivi comprese le clausole Buy American e ci sia dell’ambiguità sull’eventuale rimozione delle tariffe imposte dal suo predecessore.
La Cina è troppo grande e interconnessa per essere “contenuta” in quanto rappresenta il 18% del Pil mondiale ed è il più grande partner commerciale di sessantaquattro paesi, inclusa la Germania. Il fine ultimo dovrebbe essere quello che, in alcuni settori, l’Occidente cerchi di confrontarsi con la Cina (diritti umani), mentre in altri dovrebbe competere (la maggior parte dei settori commerciali) o cooperare (salute e cambiamento climatico).
Insieme, America, Europa e altre democrazie rappresentano ancora oltre la metà del Pil mondiale. Per limitare il perimetro delle tensioni commerciali, dovrebbero definire settori sensibili, come la tecnologia e la difesa. In queste aree dovrebbero sottoporre la partecipazione cinese ai mercati occidentali a controlli e restrizioni sempre più rigorosi.
In altri settori il commercio potrebbe invece prosperare senza ostacoli. Le grandi democrazie dovrebbero elaborare un quadro comune per chiedere il rispetto dei diritti umani, compresa la verifica che le catene di approvvigionamento siano etiche e penalizzare le persone e le imprese coinvolte in abusi. Infine, qualsiasi singola nuovo accordo con la Cina dovrebbe avere regole condivise. Questo è veramente difficile visto, ad esempio, il mancato rispetto degli accordi Ue per i vaccini anti virus che vede alcune nazioni accaparrarsi quantità ingenti degli stessi sottoscrivendo accordi diretti con le case produttrici.
Nonostante quanto precede e non sorprendentemente l’opinione pubblica nel mondo sviluppato è, o appare ora, diffidente nei confronti della Cina.
È noto inoltre che il presidente Trump non è riuscito a affrontare in modo definitivo le problematica delle relazioni con Pechino anche a causa della mancata cooperazione con gli alleati.
Atteso che Biden entrerà in carica il 20 gennaio sotto la spinta di un consenso globale, molti analisti pensano che potrebbe essere possibile, a seguito di un’azione convinta di Washington, creare un raggruppamento di democrazie, ad esempio un G7 allargato supportato con deciso consenso da tutti i membri dalla NATO, che eserciti le dovute azioni di pressione (il famoso soft power) su Pechino.
C’è quindi ancora la possibilità per riaffermare i valori delle società democratiche e dei liberi mercati, agendo senza avere timore delle reazioni cinesi come avvenuto di recente in Australia, ma difficilmente l’attesa di tale riaffermazione può durare ancora per molti anni.