EUROPA, vertice della Commissione. Oggi e domani i ventisette discutono di Brexit, diritti umani e pandemia

Pochissimo tempo per evitare il «no deal», intanto Polonia e Ungheria sembrerebbero avere raggiunto un’intesa con la Germania che consentirebbe di superare la fase di stallo nelle trattative sui fondi europei e sul correlato obbligo di rispetto dei diritti umani e civili

Oggi sta avendo luogo l’atteso Consiglio europeo, vertice la cui durata è prevista anche per la giornata di domani.

Molti e tutti di estrema importanza gli argomenti all’ordine del giorno: bilancio dell’Unione, Brexit, rispetto dei diritti umani e pandemia.

Polonia e Ungheria sembrerebbero avere raggiunto un’intesa con la Germania che consentirebbe di superare la fase di stallo nelle trattative sui fondi europei e sul correlato obbligo di rispetto dei diritti umani e civili da parte paesi membri dell’Unione.

Good bye London… ma in che modo?

Dunque, il primo gennaio 2021 il Regno Unito si staccherà dall’Unione europea, sia che tra Londra e Bruxelles in extremis venga raggiunto un accordo, sia che si giunga inesorabilmente al no deal, con tutte le conseguenze di quest’ultima evenienza, che significherebbe l’uscita secca di Londra dal mercato unico e dall’unione doganale.

Nella cena di ieri sera a Bruxelles, primo faccia a faccia tra il premier britannico Boris Johnson e il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nulla di fatto riguardo all’accordo di libero scambio che dovrebbe regolamentare le relazioni future.

Le divergenze permangono ampie e, allo scopo di tentare di appianarle, è stato fissato un altro incontro per la giornata di domenica, che dovrà essere quello decisivo, poiché il tempo dei negoziati, a quattro anni di distanza dal voto dei cittadini britannici al referendum sulla Brexit, è ormai quasi totalmente esaurito.

I piani di emergenza

Un no deal significherebbe l’applicazione dei dazi e delle quote di volumi di scambio stabiliti in sede Wto (World Trade Organization), oltre al ritorno dei controlli alle frontiere, fatto che frapporrebbe enormi ostacoli burocratici e innalzerebbe di molto i costi sulle merci che attraversano le frontiere.

Inoltre, nel caso di no deal  si dovrebbero attuare i piani di emergenza elaborati per fare fronte alle conseguenze dello svincolamento britannico da norme e regolamenti europei, ad esempio in materia di sicurezza e trasporti aerei.

Una situazione che imporrebbe una cornice regolamentare transitoria, che sopperisca al vuoto apertosi dall’oggi al domani. Una situazione che, però, sembrerebbe sempre più vicina a materializzarsi, anche stando al sentimento di pessimismo che si respira nei corridoi e nelle stanze dei palazzi dell’Unione.

Le questioni in sospeso

Per consentire al suo Paese un libero accesso al mercato unico europeo, il premier Boris Johnson dovrebbe accettare una serie di condizioni al tavolo negoziale, in primo luogo la parità di condizioni, evitando quindi di divergere eccessivamente dai parametri europei relativi agli aiuti di Stato, alla tassazione, agli standard di tutela ambientale e allo stato sociale.

Un tema controverso è poi quello relativo alle norme che disciplinano i diritti di pesca, fonte di polemica politica interna al regno Unito a partire dall’adesione di Londra alla Comunità economica europea nel 1970.

Inoltre permane il fantasma di un deterioramento della situazione nell’Ulster (Irlanda del Nord), seppure vada registrata una recente svolta con la marcia indietro di Londra sull’intenzione di violare il trattato sul commercio.

Il premier britannico si oppone frontalmente da tempo a Bruxelles, tuttavia la situazione politica interna al suo paese è andata mutando e il malcontento popolare montato sull’onda della non felice gestione dell’emergenza coronavirus ha ridotto sensibilmente il capitale politico di Johnson, che si vede quindi costretto a fare concessioni dolorose.

I temi in discussione oggi al vertice

Nella prima giornata del Consiglio europeo, quella che sta avendo luogo oggi, l’argomento Brexit non verrà dunque trattato, in quanto sono altre, numerose e urgenti le tematiche da discutere sul tavolo di Bruxelles.

A cominciare dal bilancio pluriennale dell’Unione europea e dal Recovery Fund e dal veto opposto da Polonia e Ungheria, ostacolo, quest’ultimo, che potrebbe venire superato grazie a una composizione informale e “molto politica”, nella sostanza ricorrendo a una interpretazione estensiva delle condizionalità legate al rispetto dello stato di diritto da parte dei Paesi membri, che consentirebbe una sorta di temporeggiamento fino all’emanazione di una sentenza dalla Corte di Giustizia europea al riguardo.

Una sospensione degli effetti della sentenza dunque, un «periodo finestra» durante il quale la richiesta di annullamento di Varsavia e Budapest relativa alla condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto resterebbe sostanzialmente congelata. Un congelamento che, visti i tempi della giustizia della Corte, significherebbe gli effetti di una concessione di tempo ai richiedenti, che ne beneficerebbero nel frattempo sul piano politico interno, in particolare l’ungherese Orbàn, che dovrà affrontare una tornata elettorale nel 2022.

I «nodi» delle emissioni inquinanti e della Turchia

Sul tavolo anche la questione ambientale, con le divisioni sulle riduzioni delle emissioni inquinanti che vengono ritenute direttamente incidenti sui mutamenti climatici nel pianeta. Al riguardo i ventisette Paesi membri dell’Ue non concordano sul taglio del 55% delle emissioni entro il 2030 e, anche in questo caso, Polonia e Ungheria – ancora dipendenti dal carbone (e più in generale da fonti fossili) per l’elettrogenerazione e il riscaldamento – che pretendono garanzie in termini finanziari oltreché in ordine all’intensità degli sforzi da compiere, che vorrebbero proporzionalmente minori a quelli di altri Stati membri.

Per quanto concerne, infine, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dovrà venire discussa l’eventualità dell’imposizione di sanzioni ad Ankara a seguito degli sviluppi della situazione, in particolare nel Mediterraneo orientale.

Anche qui si registrano orientamenti differenti, con Atene che chiede un embargo sulla cessioni di armamenti alla Turchia e, invece, Germania, Italia e Malta che sono disposte soltanto a estendere la lista di personalità turche alle quali applicare sanzioni in ordine alle trivellazioni illegali effettuate nelle acque del Mediterraneo orientale.

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