Nella giornata di ieri il segretario di Stato Usa Mike Pompeo aveva avuto un colloquio telefonico con il primo ministro etiope Abiy Ahmed, nel quale gli ha espresso la «grave preoccupazione» dell’amministrazione Trump per le ostilità in corso nella regione settentrionale etiopica del Tigré, sollecitando «la fine completa dei combattimenti nel Tigré, l’avvio del dialogo e l’accesso umanitario libero, sicuro e senza ostacoli. È essenziale risolvere il conflitto in corso e mantenere l’Etiopia sulla via della democrazia».
Successivamente, in una nota del portavoce del Dipartimento di Stato, Cale Brown, si «prendeva atto» dell’annuncio del governo di Adis Abeba dello scorso 28 novembre nel quale si comunicavano «importanti operazioni militari».
Tuttavia, Washington non mancava di sottolineare la «grave preoccupazione riguardo alle ostilità in corso e ai rischi che il conflitto pone», che portava alla richiesta di «dell’avvio di un dialogo costruttivo» tra le parti in guerra.
Un’altra voce inquietata si leva dunque sulla situazione nel Corno d’Africa, paventando la possibilità di una estensione del conflitto in atto nel Tigré all’arco di crisi mediorientale.
L’oscura vittoria del «presidente premio Nobel»
Alcune ore prima lo stesso Abiy Ahmed aveva annunciato l’ingresso dell’esercito etiopico a Macallè, capitale dello Stato settentrionale del Tigré, che dopo tre settimane di operazioni militari aveva piegato la resistenza delle forze del Fronte popolare per la liberazione del Tigrè (TPLF), il partito secessionista al potere nella regione settentrionale del Paese africano guidato da Debretsion Ghebremichael, le cui milizie sarebbero state messe in fuga.
Il comandante in capo delle forze armate di Adis Abeba, generale Berhanu Jula, ha confermato il «controllo completo di Macallè, riferendo inoltre della liberazione di 7.000 militari del Comando etiopico settentrionale che erano stati fatti prigionieri dal TPLF.
Dalla capitale Adis Abeba, il primo ministro ha ringraziato la popolazione tigrina per non aver sostenuto «accelerando la vittoria dell’esercito e la sconfitta della giunta secessionista», concludendo con una promessa, quella che verrà fatto tutto il possibile per aiutare la popolazione locale a tornare alla vita normale e per ricostruire le infrastrutture distrutte.
Non è chiaro, però, quanto davvero la popolazione tigrina – pari al 5% della popolazione complessiva dell’Etiopia – abbia voltato le spalle alla ribellione dello sconfitto Fronte popolare.
Quella del Tigray è stata una guerra invisibile che ha trascinato con sé anche la confinante Eritrea, un conflitto del quale non si conosce a sufficienza, poiché né la stampa né la diplomazia ha avuto la possibilità di documentarlo da vicino, questo mentre i collegamenti telefonici e quelli Internet con il Tigré erano stati interrotti all’inizio delle ostilità.
Una vittoria dei secessionisti per Adis Abeba avrebbe comportato delle serie conseguenze non solo sul piano politico, ma anche e soprattutto su quello strategico, poiché un’affermazione sul campo del TPLF avrebbe minacciato la cesura della continuità dello spazio militare lungo la strategica fascia di confine con l’Eritrea.
La sconfitta dei secessionisti
L’ha fatta dunque da padrona la propaganda, quella di entrambi i belligeranti, con Macallè che ha accusato gli eritrei di ingerenza nella crisi lanciando addirittura alcuni missili conto l’Asmara. Ma anche sul coinvolgimento diretto delle forze armate eritree nel conflitto etiopico non vi sono certezze e le scarse informazioni disponibili sono comunque discordanti. Così come quelle relative ai bombardamenti effettuati su Macallè dai velivoli dell’aeronautica di Adis Abeba per preparare il terreno all’offensiva terrestre.
Non sono certi neppure i dati relativi al bilancio delle vittime delle violenze, seppure si parli di più di 40.000 persone fuggite dai luoghi interessati dai combattimenti. Nel frattempo, alcune unità dell’esercito etiopico sono state schierate lungo il confine con il Sudan allo scopo di impedire il flusso dei profughi tigrini.
In passato, il TPLF er guerriglia che ha portato alla caduta del dittatore Menghis stato protagonista della guerriglia contro il leader comunista Menghistu Hailè Mariam e, dopo la deposizione di quest’ultimo, a partire dal 1991 aveva controllato saldamente l’intera Etiopia, servendosi anche di una capillare rete di informatori e di agenti dell’intelligence e delle forze armate.
Una egemonia consolidatasi nell’era di Meles Zenawi, presidente dal 1991 al 1995 e primo ministro dal 1995 al 2012, anni nei quali si registrò però un incremento del malcontento delle altre etnie costituenti il complesso mosaico etiopico, in particolare quelle maggiormente numerose, cioè gli Oromo e gli Ahmara.
Il 2 aprile 2018 l’elezione di Abiy Ahmed, di etnia oromo e già elemento apicale dei servizi segreti, ha portato a una progressiva emarginazione dei leader tigrini, che si sono visti costretti a un ritiro nelle loro roccaforti del nord, denunciando l’estromissione da quel potere che avevano gestito per quasi trent’anni. In seguito, la tensione con il governo centrale si è elevata ulteriormente, fino a scatenare il conflitto.
Bilancio dell’ennesimo conflitto africano: verso un’insidiosa guerriglia sui monti?
L’offensiva militare di Adis Abeba nel Tigré e l’annunciata debellatio dei ribelli del TPLF è storia delle ultime tre settimane, come il fallimento della mediazione tentata dall’Unione africana e l’accesso alle zone dei combattimenti negato agli osservatori dell’Onu, unitamente ai timori di una catastrofe umanitaria.
Nel vuoto di informazioni certe attualmente disponibili, alcuni osservatori evidenziano l’assenza di immagini di prigionieri, armi catturate al nemico e di folle acclamanti i vincitori, aspetto che li indurrebbe a ritenere che questa crisi non vada affatto considerata risolta con l’ingresso dell’esercito etiopico a Macallè.
Infatti, i ribelli possono ancora contare su non indifferenti risorse militari e probabilmente sono ancora in grado di mobilitare migliaia di guerriglieri sulle montagne del Tigré.
Parte dei medesimi osservatori rileva acutamente come l’Etiopia, divenuto con Abiy Ahmed un «beniamino» della comunità internazionale, stia neanche troppo lentamente scivolando verso una guerra civile, questo mentre contestualmente la pandemia di coronavirus sta incrementando il livello della pressione reciproca delle faglie etniche.
Ma, le onde sismiche di ostilità prolungate potrebbero propagarsi nell’intera Africa orientale, in Medio Oriente e in Europa.
L’escalation nella regione e i rischi di un allargamento dell’arco di crisi
In una sua analisi, pubblicata dapprima dal Qatar Center for regional and International Studies della Georgetown University e, successivamente, dal Besa Center della Bar-Ilan University (Perspectives Paper n. 1.833 del 29 novembre 2020), James M. Dorsey si spinge a esplorare l’ipotesi di una estensione della crisi in atto nel Corno d’Africa, che a suo avviso sarebbe in piena evoluzione, ai teatri di Caucaso, Siria e Libia, con un conseguente incremento della tensione nel Mediterraneo orientale.
Questo, secondo Dorsey, significherebbe la fine della speranza riposta nel recente accordo di pace con l’Eritrea e con esso il ritorno dello spettro di una carestia in un paese, l’Etiopia, che pareva potesse essere preso a modello per i suoi (attesi) successi nello sviluppo e nella crescita economica.
L’incremento delle tensioni nell’area si registra nella fase in cui Etiopia, Egitto e Sudan falliscono nei loro approcci negoziali alla questione dell’annosa controversia relativa alla diga che Adis Abeba sta edificando sul fiume Nilo Blu, opera che il Cairo definisce una «minaccia esistenziale» alla propria sicurezza.
Sempre secondo Dorsey, «al pari di Erdoğan nel Caucaso, nel Mediterraneo Orientale e nel Nord Africa, anche Abiy Ahmed potrebbe avere rinvenuto una finestra di opportunità in un momento in cui negli Usa tutti sono concentrati sulla transizione alla Casa Bianca, con AFRCOM lasciato da Washington privo di una chiara direzione su come rispondere alle crescenti tensioni nel Corno d’Africa».
Prosegue l’analista della Bar-Ilan University, che l’escalation nel Tigré potrebbe vanificare gli sforzi profusi per consolidare il processo di pace con l’Asmara e convincere il leader eritreo Isaias Afwerki, che non ha perso interesse per la regione confinante, ad approfittare dei contrasti allo scopo di coronare le proprie ambizioni», magari favorendo il coinvolgimento di attori esterni quali la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, che attualmente sono in competizione per l’influenza sul Corno d’Africa.
Lo spettro dello scontro etnico intra-etiopico
Inoltre, Dorsey sottolinea come questo conflitto abbia fatto nuovamente aleggiare lo spettro dello scontro etnico anche in altre zone dell’Etiopia, che oggi è una federazione di regioni autonome etnicamente definite. In favore di questa possibilità deporrebbero gli ultimi mesi di violenze e assassinii perpetrati ai danni dell’etnia amhara, dei tigrini nella capitale Addis Abeba, e gli scontri tra somali e afars, che hanno provocato decine di vittime.
Tra l’altro, la guerra nel Tigré potrebbe accelerare il flusso di profughi eritrei verso l’Unione europea, dove costituiscono già una significativa percentuale degli immigrati africani.
«Una balcanizzazione dell’Etiopia – conclude Dorsey -, in una parte del mondo nel quale il futuro dello Yemen come Stato unificato è in dubbio, muterebbe la condizione dell’Africa orientale di “perno” col Medio Oriente, divenendo un terreno fertile per le attività dei gruppi armati di militanti».
Ma, data la relativa forza residua dei ribelli tigrini, il conflitto potrebbe prolungarsi con esiti disastrosi, sottoponendo a un serio stress lo Stato etiopico, che deve giàà fronteggiare molteplici difficili sfide politiche, propagando altresì una micidiale onda d’urto nel Corno d’Africa e oltre.