In vista delle elezioni presidenziali e legislative indette per la giornata di domenica 22 novembre, nel Paese africano la lotta al terrorismo è divenuto l’obiettivo principale della campagna elettorale.
Parlando di negoziati, amnistia o rafforzamento della risposta militare al fenomeno, i candidati si sono impegnati nei confronti della popolazione a ripristinare la pace e la sicurezza, in un contesto nel quale a causa degli attacchi armati dei gruppi jihadisti negli ultimi cinque anni sono rimaste uccise più di 1.600 persone, mentre quasi un milione sono gli sfollati.
Soltanto l’11 novembre scorso quattordici militari sono stati uccisi nel corso di un attacco sferrato al loro convoglio mentre era in marcia sulla strada per Tin-Akoff, nel nord del Paese.
La gente è stanca e ha paura, una condizione che emerge chiaramente dai sondaggi di opinione, che indicano nel 93% dei burkinabei la quota che ritiene che la garanzia della sicurezza debba essere la priorità nelle attività svolte dallo Stato.
La guerra nel Sahel sta conoscendo uno stallo prolungato, che ha indotto sempre maggiori settori della politica nazionale (inclusi non pochi candidati alla carica di presidente della repubblica) vengono indotti a sostenere l’apertura di un dialogo con i gruppi armati.
Verso una strategia negoziale? Tra i sostenitori della via negoziale figurano gli esponenti del Congresso per la democrazia e il progresso (CDP), formazione politica facente capo all’ex presidente Blaise Compaoré, deposto dopo ventisette anni di potere a seguito di una rivolta popolare nell’ottobre 2014, che da sempre è orientata a una soluzione diplomatica del conflitto.
Durante il suo lungo periodo di governo lo stesso Compaoré mantenne stretti contatti con alcuni leader jihadisti e negoziò anche il rilascio di diversi ostaggi occidentali fatti prigionieri nel Sahel, avvalendosi dei buoni uffici interposti dal suo consigliere Moustapha Ould Limam Chafi.
Il CDP si dice convinto che la risposta muscolare delle forze armate e di sicurezza di Ouagadougou non sia il metodo adeguato a contrastare il fenomeno terroristico jihadista, esso, al contrario, sostiene l’avvio di una fase di dialogo che possa condurre successivamente al disarmo e al reinserimento nella società civile dei ribelli islamisti, anche passando attraverso un’amnistia.
Più cauto sull’argomento è stato il partito di opposizione Unione per il progresso e il cambiamento (UPC), seconda formazione politica nel Paese per consensi ottenuti nelle urne alle elezioni del 2015, che per bocca del suo leader Zéphirin Diabré, il 15 novembre scorso ha ribadito questo suo orientamento.
Jihadisti nella regione saheliana. È da tempo che nel Paese africano martoriato dalla guerriglia e dal terrorismo si discute dell’opportunità o meno di intavolare dei negoziati con i gruppi armati jihadisti, alcuni di essi affiliati ad al-Qaeda e altri con Islamic State.
Si tratta di un problema comune a tutti gli Stati della regione saheliana. Nel gennaio scorso il Mali ha annunciato l’apertura di canali di dialogo con gli emiri Iyad Ag Ghali e Amadou Koufa, ottenendo per questo, oltreché a fronte del rilascio duecento sospettati di terrorismo detenuti nelle proprie carceri, il rilascio di quattro ostaggi.
Un atteggiamento che pone in imbarazzo la Francia, che nell’area è impegnata con un contingente militare formato da più di 5.000 uomini, ma anche la presidenza burkinabé, che, a differenza della precedente amministrazione in carica a Ouagadougou, ha ufficialmente rifiutato di discutere con i gruppi armati.
Nel frattempo, però, alle efferatezze dei terroristi si sono aggiunti gli abusi e le violenze perpetrate dall’esercito regolare e dalle milizie di autodifesa costituitesi nei villaggi interessati dalla guerriglia, che hanno alimentato l’escalation.