I pozzi che controllava Islamic State, recentemente riportati alla ribalta delle cronache dall’inchiesta sarda sulla Saras, quelli – per capirci – da dove un tempo si estraeva per conto del governo di Damasco (quindi della famiglia Assad, che successivamente si occupava della sua commercializzazione), si trovavano quasi tutti in territorio siriano e solo in parte in quello iracheno.
Il greggio estratto da questi siti, in buona parte tecnologicamente arretrati (dunque in grado di venire sfruttati anche da personale addetto non necessariamente in possesso di capacità particolari), veniva successivamente fatto pervenire nel Kurdistan iracheno, dove passa la celeberrima rotta del contrabbando (non soltanto di petrolio) che veniva praticata da molti (inclusi i baathisti ai tempi dell’embargo internazionale e di Oil for Food) anche ai tempi di Saddam.
Un’area fittamente attraversata da piccole e medie condotte, che al pari del bacino di un grade fiume, alimenta la pipeline principale, in questo caso quella che dal Kurdistan l’oleodotto arriva direttamente allo sbocco al Mediterraneo sulla costa turca.
Pozzi, tubi e triangolazioni. Si può affermare che da quei tubi ci sono passati praticamente tutti, infatti, una volta versatolo dentro, il greggio si confondeva (e tutore si confonde) a tutti quegli altri che vi transitavano e, alla fine, praticamente tutto finiva al terminale petrolifero turco di Ceyhan oppure dentro qualche autocisterna.
Le transazioni alla base di questi traffici le fanno le mafie locali, i clan, i gruppi armati che controllano il territorio, islamisti compresi. Anche la popolazione locale ne fu partecipe, poiché dovette pure campare.
Broker, capiclan, gruppi insurrezionali e warlords contribuirono dunque a mescolare il greggio di media pesantezza dei giacimenti della Siria orientale con quelli che arrivavano dai diversi siti della regione, materie prime energetiche che poi fluivano verso Ceyhan e le raffinerie acquirenti.
Per un greggio avente un prezzo medio di mercato intorno agli ottanta dollari al barile, discrete quantità di materia prima (importanti ma comunque non gigantesche) poste in vendita con un ribasso del 15-20% risultavano certamente appetibili per tutta una serie di operatori del settore dell’Oil & Gas.
Si tratta di traffici che ci sono sempre stati, almeno fino al momento del crollo dei prezzi petroliferi e, ovviamente, a quello militare del sedicente «califfato».
L’industria petrolifera di Islam State faceva necessariamente ricorso a elementari sistemi di raffinazione, poiché gli impianti “veri” stavano in Kurdistan, cioè fuori dal territorio sotto il dominio di Abu Bakr al-Baghdadi. Si trattava in ogni caso di ingegnose soluzioni, quali le piccole raffinerie mobili, che in ragione delle loro dimensioni risultavano difficilmente localizzabili dalle aviazioni militari nemiche (occidentali).
Il petrolio del «califfo». Fare la guerra comporta dei costi, essa è nella maggior parte dei casi frutto di una strategia e di una conseguente pianificazione che non può assolutamente prescindere da fattori di natura economica. I miti e la propaganda ne sono uno strumento di attuazione, vengono dopo.
Si tratta di una legge ferrea, inderogabile, alla quale tutti sono costretti a sottoporsi, inclusi gli apparentemente irrazionali, fanatici jihadisti. Anche Islamic State dunque, che tali dettami dovette applicare allo scopo di provvedere alla cura del benessere dei propri seguaci oltreché delle popolazioni sunnite dei territori che si trovarono sotto il suo controllo per mantenere un sufficiente livello di consenso, ma anche per finanziare le varie attività terroristiche all’estero.
Un combattente del califfato, ad esempio, riceveva mediamente anche fino a più di 300 dollari al mese di paga, senza contare tutti gli altri benefit che gli venivano assicurati. Ad Abu Bakr al-Baghdadi e ai suoi servivano quindi ingenti somme di denaro. Ma, in che modo se li procuravano?
Per finanziarsi ricorrevano a varie fonti, delle quali quella «principe» era costituita dal contrabbando del petrolio, che si affiancava alla classica tassazione e al racket imposto all’interno, agli oboli e alle donazioni pervenute dall’estero, ai riscatti a fronte della liberazione degli ostaggi sequestrati, alla vendita delle opere d’arte trafugate dai siti storici e dai musei, al denaro razziato dalle banche incontrate mano a mano che occupavano territorio.
Per avere un’idea sulle proporzioni delle disponibilità finanziarie dello Stato Islamico è sufficiente analizzare il suo «bilancio» del 2014, dal quale emergeva che 480 milioni di dollari derivavano dalla commercializzazione di petrolio di contrabbando, 100 milioni dal contrabbando di altri beni diversi dal petrolio, 40 dalle donazioni ricevute dall’estero e 8 dall’imposizione fiscale interna e dal racket delle estorsioni.
I canali del contrabbando. A essere sfruttati furono vecchi e nuovi canali del contrabbando. In fin dei conti un retaggio del passato periodo del regime di Saddam, quando le sanzioni internazionali imposte a Baghdad favorirono lo sviluppo di un gigantesco mercato nero avente le proprie propaggini in Turchia, Kurdistan, Giordania e, financo, nelle zone della Siria ancora controllate da Bashar al-Assad. Un sistema pregresso che tornò nuovamente utile.
Al contrario di al-Qaeda, che si è sempre caratterizzata come una organizzazione terroristica, Islamic State si è invece presentato agli occhi dei musulmani in qualità di “stato”, approcciando con pragmatismo le popolazioni che vivevano nei territori che gradualmente le sue milizie occupavano. Esso ha dimostrato una spiccata sensibilità per le questioni interne ammantandosi di una propria natura nazionalistica, aspetto – anche in questo caso a differenza dell’organizzazione di Usama bin Laden – che ha evitato che venisse percepita dalla gente come una forza di occupazione straniera diretta da un miliardario saudita e un’intellettuale egiziano.
al-Baghdadi e i suoi riuscirono a edificare una economia e delle infrastrutture prima del riconoscimento (formalmente mai ottenuto) di una sovranità politica. Lo fecero sfruttando gli aiuti dei loro sponsor della Penisola arabica e attraverso una intelligente politica di alleanze con le tribù sunnite locali, cooptandole spesso in Islamic State al pari di cittadini di uno stato moderno, ponendo così al contempo le basi per una crescita esponenziale del consenso e quella per il rafforzamento proprio programma politico mirante all’instaurazione del califfato.