Non è stato raggiunto il cosiddetto «compromesso tedesco» sulla governance del Recovery Fund, cioè la proposta avanzata da Berlino ai partner comunitari relativa a uno strumento condiviso da utilizzare nella successiva trattativa con il Parlamento europeo in vista dei previsti di aiuti, che dovrebbero – se non si verificheranno problemi – venire erogati a partire dai primi mesi del prossimo anno.
Si tratta sostanzialmente del “regolamento” che disciplinerà le modalità di impiego del questo fondo di 750 miliardi di euro destinato a finanziare la ripresa economica dopo la disastrosa pandemia di coronavirus, un regolamento che, però, dovrà mettere d’accordo tutti sui propri punti fondamentali.
Una comunanza di interessi e di vedute la cui ricerca non è certamente facile, date le differenti esigenze fatte valere sui tavoli di Bruxelles e Strasburgo, esigenze che si traducono in posizioni politiche più o meno rigide a seconda dei casi.
Ed ecco quindi l’intrecciarsi degli obiettivi di ciascuno dei diversi Paesi, da quelli come l’Italia – gravata da un pesante debito pubblico reso oltremodo gigantesco dalla recente crisi -, che chiedono una larga flessibilità nell’applicazione delle regole, ai cosiddetti «frugali», che rinvengono nell’Olanda il loro capofila.
Ma non solo, poiché negli ultimi tempi si sono verificate ulteriori frammentazioni del tessuto comunitario, con alcuni dei Paesi del Gruppo di Višegrad che si sono gradualmente, ma inesorabilmente, allontanati dai presupposti della piena garanzia dei diritti per andare alla deriva autoritaria.
Sono molti e importanti i temi controversi in discussione, come i criteri di natura fiscale che si vorrebbero rispettati all’interno del consesso europeo.
Infatti, in teleconferenza con Bruxelles, non tutti i ministri delle finanze dei Paesi membri hanno abbracciato l’idea tedesca, seppure nei fatti esista una maggioranza qualificata in grado di approvare venerdì prossimo il testo della proposta di compromesso per poi inviarlo all’esame del Parlamento europeo.
Tuttavia, non è soltanto questo l’ostacolo che si frappone alla concreta e celere attuazione del Recovery Fund, dato che oltre ai 750 miliardi di euro dei quali consta c’è da approvare anche il bilancio comunitario 2021-2027, con tutte le sue poste in gioco del valore di oltre cento miliardi, ammontare da stanziare e spendere nei prossimi sette anni.
Tutto bloccato, almeno per il momento, fino a quando (misericordia!) non si troverà una composizione tra lo stato di diritto che teoricamente dovrebbe informare la condotta di ogni Stato membro e certi provvedimenti legislativi liberticidi varati sulle sponde del Danubio e della Vistola.
In questo semestre di presidenza di turno tedesca dell’Unione europea gli approcci nei confronti di Orbán e dei vertici di governo polacchi sono stati diversi e, entro gli stretti limiti della decenza, si è tentato un compromesso anche su questo punto fermo apparentemente inderogabile, ma nulla da fare. E allora è stato concepito un meccanismo che interrompa il flusso di fondi comunitari diretti a quei paesi che si rendano responsabili di violazioni dei principi fondamentali in materia di diritti umani, come la libertà di stampa e l’indipendenza della giustizia.
Al banco degli imputati siedono Ungheria e Polonia, paesi che però si sono detti pronti a reagire all’eventualità di un blocco dei finanziamenti inceppando il Recovery Fund mediante il ricorso alla «decisione sulle risorse proprie» prevista in ambito comunitario.
In seno al Consiglio europeo prosegue dunque la lotta tra i ventisette governi dei Paesi membri, con l’Olanda irremovibile in materia di rispetto dei diritti, che rilancia a polacchi e ungheresi un proprio ricorso allo strumento della decisione sulle risorse proprie, ma per ragioni opposte a quelle fate valere da questi ultimi.
In definitiva, alla luce della debolezza di questo compromesso tedesco ci si appresta ad assistere al prossimo atto dello scontro tra Consiglio e Parlamento europeo, con Strasburgo che pretende meccanismi più vigorosi e maggiori fondi destinati ad alcuni specifici programmi che dovrebbero venire stanziati nel quadro della programmazione del bilancio 2021-2027.
Ebbene, questo micidiale combinato composto inciderà inevitabilmente sui tempi di attuazione del Recovery Fund, quindi degli aiuti in termini economici ai Paesi che ne necessitano, in particolare l’Italia, che attende quel 10% dei 209 miliardi previsti sulla carta.
L’avvio del programma di aiuti è previsto per il 1 febbraio del prossimo anno, tuttavia risulta più che evidente la possibilità che tutto slitti avanti nel tempo, con buona pace di coloro i quali, a Roma, si baloccano magnificando cifre fantasmagoriche date per certe con eccessiva sicumera.
A seguito dell’accordo raggiunto stamane in sede Ecofin il ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualteri si è detto comunque ottimista. Mentre scriviamo è in corso la sua conferenza stampa su aiuti europei e Nadef.