ECONOMIA, Italia. La scomparsa di Cesare Romiti

Nato “sotto la stella” di Enrico Cuccia gestì con determinazione la Fiat in una delle sue fasi più critiche, quella del durissimo confronto con i sindacati. In seguito fu anche al timone di Rcs. Per Mattarella fu il «protagonista di una stagione controversa»

Con Cesare Romiti se ne va uno degli ultimi protagonisti di un mondo che non c’è più, quello del capitalismo familistico di relazione e degli equilibri definiti in quella “camera di compensazione” che per anni è stata Mediobanca.

In realtà, il determinato e tenace manager romano approdato nella prima metà degli anni Settanta al vertice del gruppo industriale della famiglia Agnelli, ha guidato anche il gruppo Rizzoli Corriere della sera (Rcs) e ha contribuito a determinare alcune delle dinamiche di maggiore rilievo che hanno caratterizzato l’economia italiana per decenni.

È scomparso all’età di novantasette anni, una lunga vita piena di avvenimenti e di responsabilità che ne hanno fatto un personaggio controverso, incensato modello di manager per molti, ma anche spietato e intransigente esponente del «padronato» per altri. Vale dunque la pena ripercorrerne l’esistenza, seppure sinteticamente e nei suoi tratti salienti.

Gli esordi alla BPD di Colleferro e la carriera. Figlio di un impiegato delle poste e dei telegrafi, Cesare Romiti dopo essersi laureato in scienze economiche e commerciali nel 1947 entra alla Bombrini Parodi Delfino (BPD), impresa industriale attiva nella produzione degli armamenti che aveva i suoi stabilimenti a Colleferro, non lontano dalla capitale.

È lì che successivamente verrà “scoperto” da Enrico Cuccia, il banchiere siciliano a capo di Mediobanca. Sarà proprio grazie a quest’ultimo – che dalla BPD trarrà anche Mario Schimberni, altro nome del capitalismo italiano degli anni Settanta e Ottanta – che Romiti successivamente si troverà nelle condizioni di mettere a frutto le proprie capacità, divenendo di Cuccia uno degli uomini di maggiore fiducia.

Infatti, alcuni anni dopo sarebbe stato proprio Cuccia a segnalarlo all’IRI per la carica di amministratore delegato dell’Alitalia, al tempo società partecipata.

Un incarico – si afferma – assegnato in un momento delicato, quando cioè in Via Filodrammatici occorreva una persona di assoluta fiducia alla quale fare riferimento per vigilare su un programma di sviluppo di dimensioni notevoli che prevedeva massicci investimenti nella flotta aerea della compagnia di bandiera italiana.

Nel 1973 Romiti approdò all’Italstat, un soggetto pubblico (formalmente una finanziaria) con competenze specifiche nella realizzazione di infrastrutture, che si articolava sulle sue due braccia operative costituite da Italstrade e Condotte.

Nella sostanza – come ebbe in seguito a dire il “fanfaniano di ferro” Ettore Bernabei, che un anno dopo a Romiti sarebbe succeduto alla guida dell’ente – Italstat era un  vertice microscopico (sessanta miliardi di capitale e una cinquantina di dipendenti) che formalmente avrebbe dovuto sovraintendere ai suoi strumenti, che però contavano su fatturati miliardari, cantieri aperti in tutto il mondo, e quattromila dipendenti complessivi.

Tuttavia, anche i 450 miliardi, di fatturato della capofila venivano realizzati per il 90% da Italstrade e Condotte, quindi, sempre secondo l’opinione di Bernabei, «chi stava in Italstat era fatalmente condannato a contare poco o niente rispetto ai due capi delle società operative».

Romiti in Italstat durò soltanto un anno, poiché nel 1974, sempre a seguito di una segnalazione fatta da Cuccia agli Agnelli, venne nominato direttore centrale per la finanza, la pianificazione e il controllo dell’importante gruppo industriale torinese.

La consacrazione in Fiat. La non breve esperienza in Fiat venne contrassegnata da fasi di differenti gradi di criticità, culminati nel durissimo scontro con i sindacati e le maestranze del 1980.

Nel 1976, a due anni dal suo arrivo, mutò l’assetto di vertice dell’impresa: con l’ingresso nel capitale sociale, Carlo De Benedetti ottenne la carica di amministratore delegato, con la conseguente trasformazione del livello apicale del gruppo in una sorta di triumvirato formato da tre manager: De Benedetti al settore industriale e produttivo, Romiti alla direzione dell’area finanziaria e Umberto Agnelli quale coordinatore, un incarico mantenuto sollo per un breve periodo, fino al momento della sua elezione al Senato della Repubblica nelle liste del partito della Democrazia cristiana.

La rivendicazione di maggiori poteri da parte di De Benedetti – che era il possessore del secondo maggiore pacchetto azionario della società per consistenza dopo quello di Giovanni Agnelli – avrebbe tuttavia condotto ben presto a dei contrasti con Romiti e il resto del management e, alla fine, alle dimissioni dall’incarico di De Benedetti.

Quella vissuta in Fiat da Romiti alla fine degli anni Settanta  fu certamente una fase molto difficile, poiché la più grande impresa automobilistica italiana risultava afflitta da una serie di gravi problemi.

A pesare erano il bilancio, la necessaria e ormai improcrastinabile riorganizzazione aziendale, lo shock provocato dal mutamento di natura epocale generato dall’apertura dei mercati e dall’abbattimento delle barriere doganali (fino ad allora buona parte del capitalismo italiano aveva beneficiato di un mercato interno di fatto protetto), il processo di ricambio della dirigenza, il crollo della produttività negli impianti industriali e l’esasperato e permanente stato di conflittualità sociale in atto nel Paese.

A Romiti va ascritto il merito di essere intervenuto per rinnovare il management Fiat facendo ricorso ad alcuni giovani dirigenti che, in futuro, avrebbero ricoperto posizioni di rilievo nell’universo economico italiano, tuttavia, le linee-guida per una trasformazione nel senso del decentramento decisionale e operativo in azienda non poterono che entrare in contraddizione con l’accentramento che della holding fece Romiti nel momento dell’acuzie dello scontro.

È lì che egli si consacra, nel vittorioso scontro frontale con i sindacati e il Partito comunista di Enrico Berlinguer, giunto ai cancelli di Mirafiori a portare la solidarietà e il sostegno di Botteghe Oscure, un segretario generale per la verità, caduto nel trabocchetto della capziosa domanda rivoltagli da un rappresentante sindacale non comunista.

I quasi 15.000 licenziamenti di operai annunciati sarebbero poi stati trasformati in cassa integrazione a zero ore per due anni, questo anche dopo una partecipata marcia di protesta di 40.000 dirigenti e quadri aziendali per le vie di una Torino a quei tempi plumbea per la crisi e il piombo dei terroristi.

Era il 1980. Negli anni seguenti la Fiat avrebbe ripreso a fare utili grazie al lancio sul mercato di nuovi modelli; nel 1982 venne chiuso lo stabilimento del Lingotto, si registrò un incremento degli investimenti a fronte di una riduzione dei dipendenti.

Nel 1987 la Fiat come gruppo industriale si attesta al secondo posto in Italia dopo l’Iri, un risultato attribuibile a Romiti e a Vittorio Ghidella, responsabile del settore auto poi, però, gradualmente la Fiat sprofonda nella crisi.

Quando nel 1996 Giovanni Agnelli ne lascerà la presidenza, il suo incarico sarà rilevato da Romiti, che lo ricoprirà per due anni.

la fine di un’era. Nel frattempo inizia la fine di un’era. Quelli sono infatti anche gli anni della crisi della prima Repubblica, degli scandali della politica e dell’economia, con «Tangentopoli» che inesorabilmente travolge anche la Fiat.

Cesare Romiti viene condannato per falso in bilancio, una sentenza poi revocata nel 2003, con la scomparsa di quel titolo del reato dal Codice penale italiano per volere del governo allora in carica.

Romiti lascerà la Fiat nel 1998 dopo ventiquattro anni per fare ingresso nell’holding finanziaria Gemina, che aveva rilevato da Mediobanca il controllo di Rcs, da dove uscirà nel 2007.

Fino al 2005 è azionista di Impregilo ed entra quindi nel settore delle infrastrutture a seguito della privatizzazione di Aeroporti di Roma, mentre in Rcs è presidente dal 1998 al 2004.

In seguito ricoprirà la carica di  presidente dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 2003 costituirà la Fondazione Italia-Cina, della quale sarà il presidente.

Egli è stato inoltre insignito della medaglia di Cavaliere del lavoro nel 1978, gli è stato conferito il titolo di cittadino onorario della Repubblica Popolare cinese, quello di professore onorario dell’Università Donghua di Shanghai oltre a numerosi altri riconoscimenti.

Venne poi insignito dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine Nazionale della Legion d’Honneur francese e nel 2010 ricevette un premio dal primo ministro della RPC Wen Jiabao in occasione dell’Anno della cultura cinese in Italia.

Ieri, in una afosa giornata agostana velata da sottili nubi azzurrognole, se ne andato. Numerosi sono stati i messaggi di cordoglio fatti pervenire alla sua famiglia, sia dal mondo della politica che da quello dell’economia.

In particolare, in uno di essi, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha definito «un importante protagonista di una impegnativa e controversa stagione delle relazioni industriali e del capitalismo italiano, in presenza di profonde trasformazioni dei mercati internazionali e di spinta a modifiche negli assetti del nostro Paese».

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