Una recente decisione potrebbe avviare il processo di pace e la riconciliazione “nazionale” afghana, ponendo così fine anche all’ormai ventennale impegno militare statunitense nel Paese centroasiatico.
Domenica scorsa, dopo giorni di discussioni nell’ambito della tradizionale loya jirga, che hanno visto la partecipazione di numerosi delegati afghani, il presidente Ashraf Ghani ha accettato di liberare i circa quattrocento talebani prigionieri attualmente detenuti nelle carceri governative.
La decisione, ritenuta un presupposto imprescindibile alla concreta efficacia delle trattative, avrebbe aperto la strada al dialogo Intra-afghano nella prospettiva di un futuro accordo che l’amministrazione Trump ha negoziato direttamente con gli insorti all’inizio di quest’anno.
L’amministrazione Trump ha definito questo sviluppo come un «passo importante verso la pace», tuttavia, dopo quasi due decenni di guerra le parti che davvero contano al tavolo dei negoziati si trovano tuttora distanti al momento di stabilire una visione comune per il Paese.
Il governo di Kabul ha esplicitato alcune linee-guida che ritiene debbano venire seguite, esse prevedono per i talebani il disarmo e l’impegno a collaborare al contrasto del terrorismo, questo a fronte di un loro pieno inserimento nella vita pubblica e alla (ovvia) possibilità di competere alle elezioni politiche.
Alcuni analisti hanno paragonato questa soluzione con l’accordo raggiunto nel 2016 dopo anni di conflitto tra il governo colombiano e i ribelli delle FARC.
Infatti, mentre il presidente Ghani e altri centri di potere influenti a Kabul sostengono la validità del sistema democratico-elettorale impiantato in Afghanistan a seguito della sconfitta del mullah Omar e seguita all’intervento militare statunitense e dell’Alleanza del Nord nel 2001, i critici sottolineano invece l’incidenza sulla realtà afghana delle divisioni tribali e dell’endemico fenomeno della corruzione, potenziali cause di una diffusa mancanza di fiducia nel sistema politico.
La visione del gruppo militante orfano di quello che fu l’Emirato Islamico di Afghanistan, cioè i talebani, permane poco chiara, anche a causa delle divisioni interne e dell’ambiguità manifestata riguardo alla cessazione delle attività violente, per non parlare poi della tutela dei diritti umani e civili, cominciare dalla condizione delle donne.
Un atteggiamento che ha contribuito a consolidare le paure tra la popolazione e la sfiducia delle élite politiche. A oggi i talebani non hanno fatto molto per mostrare la loro volontà di cambiamento, che si sarebbe dovuta concretizzare in un compromesso significativo. Essi hanno infatti intensificato le proprie attività insurrezionali, che negli ultimi mesi hanno raggiunto picchi elevati di violenza, con attacchi armati che, solamente nella settimana precedente il 6 agosto (giorno di inizio della loya jirga) hanno provocato almeno quarantadue morti tra le forze governative e quasi altrettanti tra la popolazione civile.
Mentre il governo di Kabul sostiene lo status quo in termini politici, i talebani vorrebbero reimpostare un sostanziale regime islamista basato rigidamente sulla sharia, come quello che imposero all’Afghanistan dal momento in cui occuparono la capitale nel 1996.
Sarà dunque estremamente impegnativo riuscire a conciliare queste visioni del mondo diametralmente opposte nel quadro di un accordo di condivisione del potere in un paese fortemente contrassegnato da divisioni e differenze etniche e linguistiche, che per altro continua a venire condizionato da attori esterni, in primo luogo dai potenti servizi segreti pakistani.
Per quanto concerne l’amministrazione Trump, qualsiasi progresso politico in Afghanistan si rivelerà utile al presidente uscente nella dura e difficile competizione per la riconferma alla Casa Bianca. Come accennato, la riduzione del numero di truppe americane nei teatri di guerra lontani dal suolo americano risulterà popolare agli occhi di un elettorato stanco di continui e perduranti conflitti.
È dunque presumibile che in questa politica propagandistica rientri pienamente l’annuncio del Pentagono di questa settimana relativo alla riduzione del contingente militare statunitense in Afghanistan a meno di 5.000 uomini (a fronte degli attuali 8.600) entro la fine del prossimo mese di novembre, questo malgrado le difficoltà e le non certo rosee prospettive che caratterizzano il procedere dei negoziati di pace tra gli afghani.
Un recente sondaggio effettuato dall’Afghan Institute for Strategic Studies ha rilevato che il 68% degli intervistati preferirebbe l’attuale struttura politica, per quanto imperfetta, al dominio dei talebani.
Il popolo afghano ha sopportato anni di guerra, violenze indicibili, debolezza e corruzione del governo e stagnazione economica, ma evidentemente non vuole compiere salti nel buio.
Più delll’80% per cento degli interpellati ha di chiarato che il presidente dovrebbe essere eletto direttamente, esprimendo inoltre il desiderio di una liberalizzazione dei costumi, nella quale rientrerebbe anche una maggiore enfasi da porre sui diritti delle donne e la libertà di espressione, tutti concetti in forte contrasto con quelli alla base dell’impianto ideologico-religioso dei talebani.