NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (5)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

XIV

   «Teremottto del Quarantazinque! No?!? Hmmm… alora dal Sessantazinque, zusto no? …sssantazinque».

Quella mattina se lo trovò improvvisamente di fronte l’autistico che girava continuamente e senza meta per Spilimbergo. Quando lo incrociò davanti alla rivendita dei giornali in un primo momento non ne notò neppure la presenza, distratto com’era dai titoli sulle locandine dei quotidiani esposti fuori dall’edicola. Ma l’autistico, come sempre, fu insistente.

«Dai, scolte un lamp: Quarantazinque o Sssantazinque? Sssantazinque eh!?! Ho razone io, Sessantazinque!»

Chiunque incontrava, dopo avergli rivolto alcune frasi strampalate si allontanava con passo incerto, appesantito dalla pinguedine e gonfiato dai farmaci sedativi che gli somministravano i medici del centro d’igiene mentale. Sopra pensiero, Primo non badò minimamente a lui e l’autistico, come sospinto da forza d’inerzia, si allontanò.

Calegaro era concentrato sulla stampa locale.

Casse vuote, rispunta l’addizionale Irpef

Sviluppi dell’inchiesta sul delitto del Meduna: fermato un marocchino

Istituti professionali: la Regione erogherà i fondi?

   Gli inquirenti seguivano una pista, avevano fermato uno straniero. Ma cosa c’entrava quel tipo con Nevio? Per saperne di più fece ingresso nella rivendita e acquistò tutti i quotidiani stampati in provincia. Dagli investigatori si aspettava di ricevere molte domande, era certo che i carabinieri non gli avrebbero fatto sconti, dopo tutto un omicidio era un fatto grave.

Per raggiungere il luogo dove aveva parcheggiato la sua piccola utilitaria attraversò a piedi il centro medievale camminando velocemente sotto una fitta pioggerellina.

Una volta in macchina, dopo due minuti fu in prossimità del ponte sul Tagliamento, incanalato nell’intenso traffico che scorreva sotto il cielo plumbeo. Non gli riuscì di fare a meno di volgere lo sguardo al ciglio della strada, a quella baracca di lamiera ondulata verde che era lì da decenni. Sapeva benissimo cosa contenesse e si meravigliava che data la sua inutilità non l’avessero ancora demolita. Si trattava di una vecchia postazione fissa dell’Esercito, approntata sulla linea difensiva del fiume in previsione di un’invasione delle forze del Patto di Varsavia, una delle tante mute testimonianze del capillare dispositivo militare terrestre della pianura veneto-friulana. In caso di allarme lì dentro ci sarebbero andati quelli della fanteria d’arresto, alcuni dietro alle mitragliatrici, altri nelle torrette dei vecchi carri armati Sherman e Pershing con lo scafo affogato nel cemento. Bocche da fuoco perennemente puntate in direzione dell’atteso punto di provenienza delle divisioni motocorazzate sovietiche e ungheresi, laddove la statale 464 curvava prima dell’abitato di Dignano.

Primo venne improvvisamente richiamato al presente dal violento spostamento d’aria che scosse la sua piccola utilitaria, provocato dal transito di una betoniera nel senso di marcia opposto. Una scossa che lo indusse automaticamente a fare nuovamente attenzione alla strada.

Al di sotto del lungo ponte il fiume scorreva tranquillo. La massa d’acqua fluiva placida verso il mare all’interno del canale di magra scavato dall’ultima ondata di piena.

Giunto a Udine trovò Ada in attesa davanti al portone di casa. La donna indossava uno spolverino marrone e aveva avvolto uno scialle attorno al collo per proteggersi dal freddo.

«È tanto che aspetti?», le chiese.

«No, solo da cinque minuti – rispose lei. Poi riferendosi a Zincone aggiunse – mi ha richiamata ancora quel maresciallo».

«Ancora!?! – esclamò Primo contrariato – E cosa voleva?»

«Niente di particolare, mi ha soltanto confermato l’ora della convocazione: le dieci e mezza».

La donna espresse il suo disappunto per la cosa al fratello.

«Senti: io sono convinta che questi lo facciano apposta. Pensano di poterci mettere sotto pressione con queste continue telefonate, come per influenzarci. Non so se rendo l’idea: vogliono farci capire che non ci molleranno mai. Forse ritengono che abbiamo paura di loro, ma se è veramente così hanno davvero sbagliato strada, perché con me questi mezzucci da questurino di Scelba non attaccano mica».

Primo rimase silente e continuò a mantenere lo sguardo fisso sulla strada. Fu solo dopo aver imboccato Viale Venezia per uscire dalla città che bofonchiò qualcosa di incomprensibile, quindi si rivolse perentorio alla sorella.

«Noialtri siamo a posto con la coscienza… chiaro!?! E in ogni caso dobbiamo starcene zitti. Se, quando e come io non lo so, ma se dovesse uscir fuori qualcosa, beh… allora, ma soltanto allora, vedremo il da farsi. Dobbiamo stare attenti a non farci sfuggire niente per telefono, mi raccomando! Vedrai che anche questa storia finirà presto… e poi cosa vuoi che possano fare a due vecchi di settant’anni come noi».

Ada si mostrò sicura e Primo fece lo stesso, anche se l’anziana donna non credeva che tutto potesse esaurirsi con un’audizione in caserma. Aveva un pensiero fisso nella mente e non poté fare a meno di rappresentarlo al fratello.

«E se il Nevio avesse sottratto qualcosa dai depositi? Noi non possiamo saperlo. Non ritieni sia il caso di verificare?»

Ma queste parole spazientirono definitivamente Primo.

«Stai scherzando!?! I depositi? Dopo tanti anni? Ma per carità di dio! Anzi, adesso che me lo hai ricordato farò sparire pure la copia delle chiavi del cancello della cava che ho conservato, così se quelli malauguratamente vengono a farmi una perquisizione in casa non le trovano. I depositi, certo che tu sei proprio matta! E se quelli già ne sono venuti a conoscenza e li stanno sorvegliando? Guarda che questo è un caso di omicidio, mica un reato di poco conto. E poi cosa vuoi che abbia potuto sottrarre, tu lo sai che la cava era solo un nascondiglio temporaneo, il grosso lo tenevano da un’altra parte».

Ada però insistette.

«Sarà pure come dici tu, ma noi non lo possiamo sapere cosa può aver combinato quello in tutti questi anni. Io non mi sono mai fidata di lui».

Primo fece cadere lì la discussione.

«Sì sì, lo so bene: tu di tuo fratello non ti sei mai fidata… e allora? Ascolta, a settant’anni abbiamo già dato, chiaro!?! Nevio non c’è più, quindi fine! Quanto possiamo campare ancora noialtri, cinque anni? Dieci? Ben, bon: cerchiamo di camparli in pace ‘sti pochi anni che ci rimangono. Comunque a quelle robe lì ci pensavano esclusivamente il “Plevan” e il “Numero due” e soltanto raramente coinvolgevano il “Concessionario”, quindi non parliamone più. Mi sta facendo effetto la pillola per la pressione, appena arriviamo a Pordenone mi fermo un attimo e vado al bagno in un bar, tu se vuoi aspetta in macchina e dà un’occhiata ai giornali di oggi. Parlano del fermo di un marocchino, pare sia implicato nella morte di Nevio».

  

XV

   Prima di fare ingresso negli uffici del Reparto Operativo dei Carabinieri Ada lesse il pezzo di cronaca nera a firma di Mara Maritan pubblicato dal quotidiano del capoluogo, rendendosi però conto che non rivelava nulla di particolarmente interessante.

Sulla soglia della caserma Primo fissò sua sorella negli occhi per infonderle coraggio, poi, appoggiatole il braccio sulle spalle in un istintivo gesto di protezione, entrò insieme a lei nell’edificio dove li attendevano gli uomini della Sezione Investigativa.

All’ingresso della stanza indicata loro dal piantone in servizio all’ingresso trovarono il capitano Cadrella, il maresciallo aiutante Zincone e il vicebrigadiere Toffanin. I due vennero fatti accomodare, poi Toffanin li generalizzò rapidamente.

Appoggiato in piedi allo schienale di una poltroncina Zincone se ne restava defilato, si era messo in un punto della stanza da dove era in grado di osservare tutti i presenti. Espletate le formalità di rito, Primo fu invitato ad accomodarsi in una stanzetta adiacente che comunicava con l’ufficio del capitano per mezzo di una porta indipendente dal corridoio esterno.

Vogliono separarci – pensò Ada – lo fanno per rendere le nostre difese più deboli.

Primo incrociò nuovamente il suo sguardo con quello della sorella e, nel farlo, si rese conto che Zincone stava seguendo attentamente i loro comportamenti, li stava studiando per comprenderne gli stati d’animo.

Non sono degli stupidi – rifletté – ma comunque vada dobbiamo mantenerci calmi.

Fu Cadrella a formulare la prima domanda.

«Allora signora Calegaro, ci parli di Nevio: di cosa si occupava suo fratello?»

Ada rispose con distacco.

   «Era un pensionato. Aveva lavorato tutta la vita nella cava sul Meduna dove era stato assunto più di trent’anni fa».

L’ufficiale allora proseguì.

«La cava, certo. Di preciso quali mansioni svolgeva nell’impianto?»

«Nevio era una sorta di tuttofare – rispose la donna – si occupava dell’organizzazione del lavoro, del ritiro dei materiali inerti da parte degli autisti delle imprese edili e anche della piccola contabilità. Era lui che a volte andava a fare i versamenti di contante in banca».

«Signora – sottolineò a questo punto il capitano – a noi non risulta che, per quanto potesse essere elevato il volume di affari di quella cava, suo fratello avesse l’incombenza del trasporto di grosse somme di danaro: allora come giustifica l’esigenza del possesso di armi da fuoco da parte sua? Ormai da alcuni anni questi trasferimenti si effettuano mediante bonifici bancari, o al massimo con l’emissione di assegni non trasferibili… insomma, capiamoci bene signora: non mi pare che suo fratello si trovasse esposto a rischi tali da essere costretto a girare armato. Quindi, io vorrei sapere quali possono essere state le reali ragioni alla base del possesso di due pistole da parte sua».

Ada non si scompose e replicò con naturalezza.

«Nevio aveva un regolare permesso sia per il trasporto che per l’uso delle armi. Penso che gli piacesse sparare con la pistola. Era un tiratore e si divertiva ad andare al poligono. Comunque ve l’ho già detto in precedenza: io non lo frequentavo più da molto tempo, dunque non ho avuto modo di confidarmi con lui su tali aspetti».

Insoddisfatto, Cadrella le rivolse ancora una domanda, però stavolta il tono della sua voce fu piccato.

«E che suo fratello si recasse continuamente in Jugoslavia? Neppure di questo era al corrente? Cosa ci andava a fare di là? Aveva una relazione sentimentale con una donna oppure degli interessi di natura economica?»

«Guardi capitano – replicò in modo velatamente spazientito l’anziana – io tutte queste cose ve le ho già dette a casa mia l’altro giorno quando ho parlato col maresciallo che adesso è di là con mio fratello, ed era presente pure il vicebrigadiere che adesso è qui a verbalizzare. Certo che sapevo che il Nevio andava in Jugoslavia, però le ragioni alla base dei suoi viaggi io non le conosco. Posso soltanto immaginare che andasse a fare il pieno di benzina alla macchina e poi si fermasse anche a mangiare al ristorante; può anche darsi che abbia conosciuto un donna. Ma le ripeto: io non sono al corrente di queste cose».

«Suvvia signora, non facciamo finta di essere delle Biancaneve – insistette l’ufficiale dei Carabinieri – a Spilimbergo era risaputo da tutti che Nevio Calegaro fosse un assiduo frequentatore di locali equivoci, possibile che nemmeno di questo lei sapesse nulla?»

Tra quei due in quella stanza della Sezione Investigativa si era andata creando una strana atmosfera: ogni volta che Cadrella le rivolgeva una domanda, lei dapprima lo guardava con distacco, poi puntualmente lo irretiva rispondendogli con un tono cortese ma deciso.

«Veda signor capitano, io abito a Udine ormai da tanti anni, cosa vuole che ne sappia di cosa sparlano i pettegoli a Spilimbergo».

L’atteggiamento glaciale di Ada indispettì l’ufficiale, che tuttavia stava cadendo nella trappola tesagli dall’anziana maestra in pensione. Ella fece intelligentemente leva sulla suscettibilità dell’uomo nel tentativo di ribaltare i ruoli in commedia: formalmente era lui a guidare il confronto, ma nella realtà a dominarlo era lei. Nel corso dell’intera audizione la donna non soltanto non perse mai la calma, ma riuscì persino a percepire le involontarie manifestazioni di debolezza che a tratti trasparivano dall’atteggiamento del suo interrogante. Fu capace di misurare lo spessore dell’interlocutore adeguando conseguentemente il proprio comportamento alla situazione contingente. Penetrò a fondo lo stato d’animo dell’inconsapevole capitano attraverso l’osservazione delle parole e delle espressioni manifestate attraverso il linguaggio del corpo, aspetti paraverbali che in quel frangente le risultarono un indice di nervosismo e insincerità.

Nel frattempo Zincone aveva fatto ritorno nella stanza lasciando Primo da solo. Entrò proprio mentre Cadrella poneva ad Ada dei quesiti di rilancio al fine di stimolarne le risposte. Ma, per sua disgrazia, l’anziana donna conosceva molto bene quelle tecniche d’interrogatorio e conseguentemente non abbassò mai la soglia di attenzione, evitando così di scoprirsi. Seppe governare perfettamente le proprie emozioni mantenendo tutte le sue risposte coerenti. Era una donna forte Ada, estremamente tenace. Per principio non si sarebbe mai chiusa nel mutismo, se avesse voluto essere reticente non le avrebbero certo fatto difetto le sue capacità, dato che in passato aveva imparato a reggere anche un duro interrogatorio.

Quella convocazione dai Carabinieri non la preoccupava dunque più di tanto e di questo se ne accorse Zincone, che contrariamente al suo capitano ritenne che le persone di fronte a loro non fossero solo due poveri vecchi chiusi nel loro dolore.

Osservandoli attentamente, in controluce intravide meglio la filigrana: sotto la superficiale patina di ingenuità propria degli anziani, i Calegaro celavano una sicurezza fuori dal comune. Quei due stavano recitando alla perfezione un copione studiato in precedenza. Egli intuì istintivamente che, soprattutto la donna, li stesse trattando con sufficienza, se non addirittura con spocchia.

Inserendosi nello stantio duetto in atto in quel momento fra lei e il capitano, Il maresciallo ricorse alla tattica invasiva del cambiamento di tema: ogni volta che durante una risposta la donna faceva anche involontariamente una digressione, lui si appropriava fulmineamente dei microtemi introdotti allo scopo di scavare più a fondo nella personalità dell’interlocutrice. Ma purtroppo anche questo accorgimento diede scarsi frutti, poiché Ada Calegaro non si aprì mai del tutto, ed evitò di lasciarsi andare a eccessive confidenze.

La discussione si arenò inesorabilmente dopo poche battute di scarso interesse. Dai Calegaro gli investigatori non ricavarono praticamente nulla.

  

XVI

   I due sottufficiali si dovettero immergere nuovamente nel traffico della Pontebbana. Un altro viaggio fino alla Compagnia di Spilimbergo per raccogliere informazioni sulla personalità della vittima. Là avrebbero ascoltato alcuni soci del circolo della pesca, persone che negli ultimi tempi avevano avuto contatti con Nevio Calegaro.

Continuava a piovere dalla mattina presto e le goccioline d’acqua depositatesi sul parabrezza non davano tregua ai tergicristalli. Come la spazzola di gomma semi consumata puliva il vetro altre gocce lo andavano subito a ribagnare riducendo nuovamente la visibilità al conducente.

Toffanin guidava con prudenza mantenendo un’andatura moderata, senza accelerare troppo neppure dopo che ebbero raggiunto la poco trafficata superstrada per Sequals, l’ampia striscia d’asfalto che si protendeva parallela al torrente Meduna verso i primi contrafforti montani. A quell’ora lì gli automobilisti erano tutti a pranzo, tranne loro due, inchiodati a un caso di omicidio che non li faceva dormire da tre giorni.

All’improvviso, il vicebrigadiere interruppe il perdurante silenzio che regnava nell’abitacolo della Punto.

«Aiutante, certo che è strano forte eh?!? Chissà perché ogni volta che uno va su per l’autostrada e vede quei cartelli di “Isoradio”… ha presente quelli che ti dicono pure la frequenza, poi dopo però uno prova a sintonizzarsi sulla stazione ma non ci riesce mai. Non si sente mai un tubo… boh?»

Completamente assorto nei suoi pensieri, Zincone non fece caso alle parole del collega. Non riusciva a togliersi dalla mente Kovacich. Convinto come era che il pregiudicato triestino con l’omicidio c’entrasse in pieno. Ma che ruolo avrebbe potuto svolgervi una mezza tacca come lui? E inoltre, cosa più importante, chi potevano essere quelli che erano con lui nell’autogrill di Portogruaro?

Kovacich, la droga, la guerra, quei due strani vecchi… era un vero casino. Altro che quel morto di fame del marocchino fermato dalla Polfer alla stazione.

Non ebbe dubbi: dietro all’assassinio c’erano interessi molto più grandi di quelli di un pusher della risma di Jaffna.

Però Kovacich ancora non si trovava. A Trieste la madre aveva dichiarato di non averlo più visto dalla mattina del martedì precedente.

«Lunedì pomeriggio – aveva dichiarato l’anziana donna – Miro ha fatto rientro a casa per pernottarvi, poi la mattina si è fatto la borsa e se ne è andato via di nuovo senza dirmi niente».

Zincone riuscì a rilassarsi un po’ soltanto in prossimità di Spilimbergo. I suoi pensieri tornarono alla propria famiglia, alla moglie e ai due figli, una ragazzina di tredici anni e un bambino di sette che lo avevano seguito a Pordenone dopo l’ultimo trasferimento. I ragazzi in Friuli si erano inseriti bene, mentre per lui invece si era trattato di un notevole cambiamento.

Qui si era trovato di fronte a una realtà totalmente diversa da quella dove aveva prestato servizio in precedenza. A Caserta, infatti, aveva indagato sulla criminalità organizzata in un ambiente degradato dove la camorra controllava sostanzialmente il territorio. Era stato anche all’estero, era successo quando lo avevano assegnato alla Multinational Specialized Unit, la principale forza di polizia della NATO in Bosnia e Kosovo. Nei Balcani aveva lavorato a stretto contatto con l’aliquota informativa dell’unità di manovra, una ventina di colleghi provenienti dal Reparto operativo speciale che indagavano in abiti borghesi all’esterno delle basi militari interfacciandosi con le polizie locali, i sindaci e i confidenti agganciati fra la popolazione civile.

Il trasferimento in Friuli era arrivato poco dopo il suo ultimo rientro in Italia da Sarajevo. A Pordenone aveva preso casa e da allora erano trascorsi ormai alcuni anni.

La vettura di servizio procedeva lenta. Mentre osservava le Prealpi all’orizzonte, in quel momento coronate da nubi plumbee cariche di pioggia, gli tornarono in mente le risposte dei Calegaro e confrontò le personalità di quei due vecchi con quelle dei delinquenti abituali che aveva conosciuto in passato.

I primi gli parvero così diversi, distanti anni luce da quel mondo criminale col quale aveva avuto a che fare tante volte.

Un aspetto in particolare lo aveva impressionato: la fermezza dell’anziana maestra in pensione. Ma non riusciva a immaginare cosa mai potesse celarsi nel profondo della coscienza di una persona così intimamente legata all’ultimo fratello rimastole e invece a tal punto freddamente distaccata da quello appena perduto.

Una cosa comunque l’aveva capita: quando quei due erano insieme si trasmettevano sicurezza e forza.

Fu la sua ultima riflessione prima che la vettura di servizio si lasciasse alle spalle la superstrada. Erano giunti allo svincolo per Spilimbergo. Mentre impegnavano la rampa che immetteva alla provinciale volse per un istante lo sguardo alle terre steppose attorno al Meduna, non lontano dal punto dove alcuni giorni prima era stato consumato il delitto.

(5 – continua)

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