di Giuseppe Morabito, generale membro del Direttorato della NATO Defence College Foundation – Il perché della decisione del presidente Trump di ritirare senza preavviso 9.500 dei 34.000 militari statunitensi schierati in Germania, quindi circa il 30% del “pacchetto deterrenza” della NATO, è una delle domande che tutti gli esperti che occupano dell’Alleanza Atlantica si stanno ponendo in queste ore.
È dunque necessario comprendere i perché alla base della scelta del presidente Donald Trump e anche perché questo sia potenzialmente pericoloso.
In molti si chiedono cosa potrebbe passare nella mente del presidente Putin e conseguentemente cosa potrebbe accadere.
Sulla scia della decisione presa negli Stati Uniti, Mosca ha già annunciato che rafforzerà il suo sistema operativo occidentale con la Brigata di Sebastopoli.
Questa unità «svolgerà attività tese a garantire la difesa della Federazione russa sulla direttrice strategica occidentale», poiché – come dichiarato dal generale russo Sergei Rudskoi – le esercitazioni alleate, anche se su scala limitata, condotte dalla NATO nei pressi del confine russo sono un esempio di «continue attività anti-russe».
Il motivo per cui il presidente Trump stia ritirando le forze americane, in piena campagna elettorale e sotto la pressione delle dimostrazioni della sinistra per i tragici fatti di Minneapolis, è chiaro: Trump “porta i ragazzi a casa”, compiendo una mossa elettorale che fa appello alla suo bacino di consensi sul piano politico, settori del Paese che vedono di buon occhio un ridimensionamento del Transatlantic Link e che credono che Washington debba usare le sue forze armate per difendere gli interessi nazionali messi in pericolo dall’ascesa militare cinese in Asia.
La decisione del presidente andrebbe anche interpretata nel senso di un avvertimento agli europei, che hanno sempre avuto la certezza che lo scopo della presenza delle forze americane sul Vecchio Continente fosse quello di agire nel solo loro interesse.
Sulla decisione americana forse influisce anche la paventata intenzione tedesca di non installare armi nucleari sul proprio territorio, questione dalla quale è scaturita la dichiarazione (o velata minaccia) che «la Russia potrebbe ricorrere a una politica nucleare di “primo utilizzo” in caso di un attacco militare convenzionale a Mosca».
Come direbbero a Roma: «Alla faccia della risposta flessibile!», cioè di quella che fino a ora era stata utilizzata come “metro di misura” tra i blocchi contrapposti.
Oggi l’Europa occidentale è in crisi a causa del Virus di Wuhan. Londra, in rapido declino strategico dopo la Brexit, seppure possegga lo scudo nucleare ha ormai poca o nessuna influenza sugli affari internazionali, mentre la Francia è impantanata in un debito importante e “ha voce in capitolo” solo se la Germania è d’accordo.
Tutto il resto dell’Europa, Italia inclusa, non è in grado di proporre una deterrenza credibile e molti stati intrattengono stretti rapporti con Mosca, che potrebbero compromettere la capacità dell’Alleanza di agire in caso di emergenza.
La Turchia poi, è ora così alienata dal resto dell’Europa che non può più essere un alleato credibile in caso si rendesse necessario il suo contributo nel quadro dell’Alleanza atlantica per agire durante un’emergenza.
Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin si trova di nuovo di fronte a una difficile situazione interna e ha da poco dichiarato lo stato di emergenza a causa della pandemia da Covid-19.
L’esportazione d’idrocarburi russi è stata paralizzata dal crollo dei prezzi degli idrocarburi ed è improbabile che si riprenda a breve, vista la crisi delle industrie europee che hanno bisogno di energia elettrica per funzionare e, in parte, per l’arrivo della stagione calda.
Per la Russia mantenere operative le proprie forze armate comporta costi elevati, che se l’economia di Mosca continuerà a declinare sarà’ difficile sostenere.
Questo anche se Putin, di fronte a un calo di popolarità interno, si facesse forza del deterioramento registrato negli ultimi mesi nelle relazioni tra Pechino e Washington, provocato dalla minacciata politica del governo di Pechino di una fine del modello “Una Cina, due sistemi”, che potrebbe comportare l’occupazione militare di Hong Kong, fungendo anche da avvertimento alla democratica Taiwan di non cercare la secessione formale dopo quella che c’è stata, di fatto, dal dopo guerra.
Come già da qualche tempo discusso in ambienti NATO, con gli Stati Uniti concentrati sulle elezioni presidenziali e l’Europa impotente, la seconda metà del 2020 potrebbe rappresentare l’occasione perfetta per Pechino e Mosca di sostenersi a vicenda, creando crisi simultanee nell’Indo-Pacifico e in Europa.
Segnali chiari arrivano da Pechino e Mosca stanno avendo contatti diplomatici in merito a trovare una concordata strategia anti-occidentale.
A Bruxelles gli esperti ipotizzano che se la Russia agirà, lo farà con l’uso della strategia a lei più congeniale e cioè: inganno, disinformazione, disgregazione, destabilizzazione e distruzione (persino effettiva).
Teatro perfetto per tale agire potrebbe essere l’Ucraina. Come in passato il periodo immediatamente precedente a tali azioni potrebbe coincidere con una stagione ingannevolmente calma oppure un “tempo di vacanza”.
Per esempio, ricordo che nell’agosto 2008, Mosca usò la distrazione internazionale dei Giochi olimpici di Pechino per creare i presupposti e poi occupare ampi territori della Georgia.
Come dichiarato il più occasioni, Washington critica agli europei perché non fanno abbastanza per difendersi – spese militari ridotte e assolutamente non sufficienti per avere credibile deterrenza – e gli Stati Uniti sono chiamati troppo spesso a “fare” al loro posto, con molti leader europei che, per tenere a freno la l’opposizione interna, negano l’evidenza del pericolo proveniente da Est e molti, anche e incredibilmente, da Sud.
In conclusione, la decisione di ritirare improvvisamente 9.500 soldati è strategicamente pericolosa, o nella migliore delle ipotesi affrettata, a meno che non si giustifichi con la teoria che (forse) il presidente Trump ha fatto un accordo segreto con il presidente Putin formulandogli una proposta migliore di quella del presidente Xi Jinping.
Non è intenzione di queste considerazioni ingenerare paura o timori immediati, ma appare logico che le azioni americane avranno delle conseguenze.
Winston Churchill nel 1936 affermò – e non vorrei che adesso la sua frase trovi ragione geopolitica e attualità – che: «L’era dei rinvii, delle mezze misure, degli espedienti ingannevolmente consolatori, dei ritardi è da considerarsi chiusa, ora inizia il periodo delle azioni che producono delle conseguenze».