NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (1)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

Spilimberc

  A conti fatti, questo è un buon posto per vivere, pensò Simeone attraversando a passo veloce piazza Borgolucido quel mattino di fine inverno illuminato dal sole. Nella notte un forte vento proveniente da Est aveva spazzato via l’umidità che in precedenza stagnava nell’aria, rendendo l’atmosfera tersa al punto da poter distinguere tutti i paesini della fascia pedemontana, campanile per campanile.

Simeone Treppo si stava recando nel suo negozio di scarpe e pantofole ereditato dal padre Zuan, che per aprirla aveva lavorato duramente per anni nelle miniere del Belgio.

Quando era emigrato, Zuan aveva lasciato la famiglia a Vito D’Asio, il suo paese di origine, poi al ritorno in Italia si era trasferito in pianura, a Spilimbergo, dove aveva aperto quella piccola bottega.

Non era stata una cattiva idea. In città al sabato c’è il mercato, quindi arriva gente dal circondario.

Passati gli anni Zuan aveva lasciato tutto nelle mani del figlio maggiore, Simeone, un ragazzo che non brillava eccessivamente per l’intelligenza, che però era volenteroso e attento ai quattrini e Simeone fece del commercio la sua ragione di vita.

Per Simeone, quello appena iniziato sarebbe stato giorno d’inventario. Fare ordine nel locale e nell’angusto magazzino sottostante e, per prima cosa, sbrigare i lavori più pesanti, come spostare le scatole delle scarpe e pulire scaffali e pavimento. Soltanto dopo si sarebbe potuto dedicare al controllo delle fatture, telefonando al commercialista e ai rappresentanti dei calzaturifici per gli ordini e gli immancabili reclami. Appena ebbe girata la chiave nel grosso lucchetto della saracinesca si sentì chiamare da sotto il porticato dell’edificio antistante.

«Simeone! Simeoneee!!!»

Era Solferino, al secolo Gervasio Zanutti, uno che per tutta la vita aveva lavorato nel retro della farmacia del Corso. Lo chiamavano tutti in quel modo, ma nessuno conosceva l’origine di quel suo strano soprannome che evocava il Risorgimento.

Simeone si voltò di scatto sorpreso da quelle grida.

«Cosa sucede!?! Cos’hai da gridare a sto’ modo?»

Solferino si avvicinò e quando fu a poche decine di centimetri dall’altro si rivolse a lui, ma a fatica, poiché affannato dalla corsa fatta per raggiungerlo.

«Hai saputo della disgrazia di Calegaro?»

«Calegaro chi? – domandò incuriosito Simeone – il vecchio?»

«Macché – rispose Solferino, che nel frattempo aveva smesso di ansimare – Nevio, il più giovane dei tre».

«Beh, allora? – gli disse spazientito Simeone – Vuoi parlare o no?!?»

A questo punto Solferino si fece cupo e con teatralità iniziò a tratteggiare l’accaduto.

«Al’è muart… lo han trovato giù a Tauriano in un viottolo di claps sul Meduna. Gli hanno sparato».

«Ma che dici… davvero hanno accoppato al Nevio?!? Non posso crederci. Chi poteva avercela con lui?»

Simeone rimase immobile per alcuni istanti fissando incredulo il suo interlocutore, che ruppe quel silenzio con una precisazione.

«Sono venuto a dirtelo perché sapevo che eravate amici e andavate sempre a pescare assieme. Ma adesso devo andare, mandi

Era vero, Nevio e Simeone si conoscevano dall’infanzia, tuttavia negli ultimi anni non si erano più frequentati con assiduità come avevano fatto in precedenza. Di tanto in tanto si incontravano al circolo della pesca.

Nel frattempo, Luisella Marconaro, la giovane commessa del negozio di scarpe dipendente di Simeone, aveva raggiunto il negozio. Per prima cosa, dopo averlo salutato si rivolse a lui chiedendogli cosa gli avesse riferito Solferino poco prima, ma per tutta risposta ricevette un rimprovero.

«Dai dai, su! Facciam prestino parcé no ai timp di piardis

La ragazza era arrivata in leggero ritardo rispetto all’orario di apertura e lui non gliel’aveva lasciata passare.

Luisella aveva ventotto anni ed era figlia di un operaio e di una donna che prestava lavoro in manifattura a chiamata, oltreché in agricoltura per la vendemmia o la raccolta delle mele.

Aveva frequentato la scuola fino alla terza media, ma gli studi non facevano per lei, dunque non appena poté si guadagnò qualche lira andando a lavorare come commessa tuttofare nel negozio di scarpe di Simeone.

Curata nell’aspetto, malgrado il suo fisico fosse leggermente tarchiato e le mani decisamente tozze non era però né rozza né volgare.

Due anni prima si era fatta applicare un piercing alla narice destra, suscitando la ferma disapprovazione dei suoi genitori, totalmente chiusi alle moderne tendenze giovanili.

Anche quella volta, come sempre aveva fatto in passato, non aveva reagito alle dure reazioni verbali di loro, trattenendo il proprio dispiacere dentro di sé.

Introiettava di continuo tutta l’amarezza che le derivava dalle incomprensioni del padre e della madre. A lei piaceva vivere. Aveva imparato a vestirsi meglio e adesso riusciva anche a risultare piacente, seppure lasciasse trasparire una sottile mascolinità.

Nei fine settimana aveva preso a frequentare un gruppo di amici che si incontravano abitualmente al bar di via Cavour, dietro al passaggio a livello in disuso. Al sabato sera, dopo la chiusura del negozio, li raggiungeva e andava con loro a divertirsi.

 I

   Nessuno si era preoccupato per la sua prolungata assenza, giacché tutti quelli che lo conoscevano erano abituati ai suoi repentini allontanamenti.

Nevio Calegaro andava via da casa in continuazione senza dare mai preavvisi a nessuno. Prendeva, partiva e stava fuori per giorni. Poi ritornava, e allora lo si rivedeva nei caffè di Corso Roma o al circolo della pesca.

Ma stavolta era andata diversamente, perché lo avevano trovato steso sul Meduna con tre colpi di pistola in corpo.

A scoprire il cadavere era stato un moldavo, un poveraccio che per campare rivendeva alle ferriere oggetti di metallo abbandonati che raccattava per la strada. Erano intervenuti i Carabinieri della compagnia di Spilimbergo e sul luogo del delitto, isolato con del nastro di plastica bianco e rosso, erano stati effettuati i primi rilievi.

Del caso venne subito interessata la Procura della Repubblica di Pordenone e, ricevuto l’incarico dal pubblico ministero, il dottor Enore Vidussi si era immediatamente recato sul posto per effettuare il primo sopralluogo sul cadavere.

A volte, l’osservazione diretta della scena di un delitto aiuta a chiarire molti più aspetti di una successiva lettura degli atti, tuttavia un sopralluogo può risultare anche molto impegnativo, poiché comporta l’accurata descrizione della dinamica del fatto e di tutte le tracce rinvenute. Una parziale ispezione esterna del cadavere, invece, permette di rinviare le considerazioni conclusive a dopo l’effettuazione di esami più accurati all’obitorio.

Il medico necropata descrisse la posizione esterna della vittima, sia rispetto all’ambiente circostante che a sé stesso; rilevò la posizione degli arti, del capo e del tronco, la natura e lo stato degli indumenti che indossava, oltre a tutti gli altri potenziali elementi d’interesse per l’indagine. Infine, misurò la temperatura corporea e prese atto dei fenomeni cadaverici che si erano manifestati, come il rigor mortis e l’ipostasi.

Fu proprio quest’ultima a indicare a Vidussi la corrispondenza del luogo di ritrovamento con quello dell’azione omicidiaria, infatti, le colate ematiche nelle zone di appoggio del cadavere risultavano compatibili con la postura dello stesso e con la superficie del terreno.

Il fatto che il morto fosse supino gli fece supporre che il colpo di pistola in fronte fosse stato esploso quando già si trovava a terra. Probabilmente era stato il colpo di grazia, con l’ogiva che era fuoriuscita successivamente posteriormente, da un punto della zona occipitale che non poggiava sui sassi.

Le condizioni ambientali – era ancora inverno e il luogo era a pochi chilometri dalle Alpi -, unite alla temperatura e alla rigidità del cadavere in quel momento in atto, fornirono alcune ulteriori indicazioni utili alla datazione del decesso, collocabile nelle trentasei-quarantotto ore precedenti.

A trentasei ore dalla morte le ipostasi si erano ormai fissate e il freddo, oltre a ritardare l’inizio del processo putrefattivo, aveva sortito i medesimi effetti anche sulla rigidità, facendola comparire in ritardo ma favorendone al contempo la durata.

Riguardo alle cause del decesso c’erano pochi dubbi. Pur riservandosi delle conclusioni maggiormente particolareggiate a seguito di ulteriori approfondimenti, Vidussi constatò comunque che quel corpo presentava tre fori di proiettile provocati da un’arma da fuoco corta: uno alla testa e gli altri due che avevano attinto la regione addominale.

Di uno di essi c’era stata ritenzione, evento non molto frequente dato il calibro dell’arma che si presumeva avesse sparato. Al momento dell’impatto l’ogiva aveva subìto una lieve deformazione ed era stata successivamente bloccata da un corpo vertebrale della vittima. A questo punto soltanto nel corso dell’esame autoptico sarebbe stato possibile localizzarla, sottoponendo il cadavere a un esame radiografico.

Il possesso di un proiettile sparato dall’assassino costituisce un elemento importante per risalire al tipo di arma impiegata.

Il terzo colpo, quello esploso alla fronte da distanza ravvicinata, aveva impresso sulla pelle una sorta di tatuaggio “a caldo” riproducente l’impronta del vivo di volata e del mirino della pistola, uno di quei classici colpi a contatto che provocano ferite stellate o raggiate sulla cute. La conseguente frattura della base cranica aveva poi generato una copiosa fuoriuscita di sangue dalle narici e dalla bocca dell’uomo.

I bossoli espulsi dalla camera di cartuccia dopo gli spari vennero rinvenuti dai carabinieri senza eccessive difficoltà, erano sparsi fra i ciottoli in prossimità del punto dove si era accasciata la vittima. A uccidere quell’anziano era stata una semiautomatica, una calibro nove per diciannove parabellum.

La scena del delitto fornì indizi inequivocabili riguardo alla lucida preordinazione del crimine, in seguito la delineazione di un quadro sufficientemente esauriente della personalità di quel vecchio assassinato avrebbe potuto fornire agli inquirenti maggiore chiarezza.

La Compagnia di Spilimbergo interessò immediatamente la Sezione Tecnica del Comando provinciale dell’Arma. Non fu possibile fare intervenire il Ris, poiché non si poteva lasciare il cadavere esposto all’aperto per un tempo eccessivo.

Terminati i rilievi il pubblico ministero ne autorizzò il trasporto all’obitorio. Alle tredici giunsero i necrofori della società esternalizzata che svolgeva il servizio di polizia mortuaria per conto del comune. Prelevarono il corpo senza vita e lo caricarono in una cassa in vetroresina che poi sistemarono all’interno del loro automezzo.

Quel furgone faticò non poco prima di raggiungere la strada asfaltata. Dopo aver sobbalzato nel suo lento procedere su pietre di fiume e solchi scavati dai carri armati della vicina caserma che su quel sedime effettuavano le loro esercitazioni, si lasciò alle spalle i magredi e si immise sulla via per Basaldella. A un chilometro da lì c’era lo svincolo della superstrada, da dove in venti minuti avrebbe raggiunto Pordenone.

II

   Calegaro Nevio, anni sessantotto, causa del decesso: omicidio volontario; il cadavere viene posto a disposizione dell’Autorità giudiziaria.

La vittima era stata identificata. Ricevuto il fascicolo dalla Compagnia Carabinieri di Spilimbergo, il comandante del Reparto operativo di Pordenone lo trasmise successivamente alla Procura della Repubblica. Accertamenti, primi riscontri, ipotesi: venne vagliato tutto quello che era stato messo insieme subito dopo il rinvenimento del cadavere.

Per il momento avrebbero assunto informazioni sulla vittima attraverso l’esame dei suoi trascorsi e l’audizione dei parenti e degli amici più stretti, insomma, la classica indagine di natura cartolare.

Contestualmente però, sarebbero state percorse anche altre strade, prima fra tutte quella del reperimento di eventuali tracce digitali, immagini e registrazioni in grado di concorrere alla definizione dell’identità del colpevole. Un lavoro meticoloso e difficile da svolgere senza indugi per evitare rischi di dispersione di prove per via della loro cancellazione.

In questi casi ci si appiglia a una faccia, alla targa di una macchina o a qualsiasi altro elemento che possa far risalire rapidamente a un nome.

Le moderne tecniche di indagine consentono la ricostruzione dei movimenti di un soggetto transitato nei pressi del luogo del delitto nell’arco di tempo compatibile con la sua esecuzione. A un nome si possono poi collegare delle utenze telefoniche di apparecchi cellulari, che a loro volta permettono di determinare la posizione sul terreno di quello stesso telefonino.

Non era dunque impossibile risalire a coloro i quali nel momento in cui veniva assassinato Calegaro si trovavano a passare tra la frazione di Tauriano e la superstrada, malgrado in zona di fonti per il reperimento di tracce digitali non ce ne fossero poi così tante.

La più importante era la caserma delle truppe corazzate, che disponeva di un sistema di videosorveglianza.

Se dopo l’omicidio l’assassino si era diretto verso la superstrada oppure verso Aviano il suo passaggio sarebbe risultato nelle registrazioni delle telecamere della base.

Se invece si era diretto dalla parte opposta, cioè verso Spilimbergo, data la maggiore antropizzazione del territorio sarebbero aumentate le possibilità di ricavare le immagini di un’autovettura in transito. Senza contare che quella stessa notte i Carabinieri avevano allestito un posto di blocco proprio alle porte della cittadina tra i due fiumi.

Purtroppo sul luogo del delitto non erano stati rilevati elementi in grado di permettere una ricostruzione della traccia genetica dell’assassino: né un mozzicone di sigaretta impregnato di saliva e neppure tessuti rimasti fra le unghie del morto; il carnefice era stato bene attento a non lasciare in giro nulla e adesso si potevano soltanto attendere gli esiti degli esami peritali effettuati sui bossoli e sull’ogiva.

Ma chi era Nevio Calegaro? Il pensionato assassinato sul Meduna era nato sessantotto anni prima nella stessa Spilimbergo, dove aveva vissuto fino al giorno della sua morte.

Dalle prime ricerche emerse che gli erano rimasti soltanto due parenti stretti, un fratello e una sorella. Addosso gli avevano rinvenuto un porto d’armi, un passaporto e una patente di guida di categoria C.

Quest’ultima era la classica carta telata pieghevole di colore rosa recante la fototessera del titolare, un ritratto in bianco e nero risalente a trentacinque anni prima scattato in una cabina automatica per la strada.

In vita Calegaro doveva essere stato un tipo estremamente preciso, ai limiti della pignoleria. Osservando la sua licenza di guida i carabinieri notarono che tutte le marche da bollo erano state meticolosamente applicate nelle apposite caselle fino all’anno in cui ne fu previsto l’obbligo e, successivamente, regolarmente annullate con un doppio tratto di penna biro scura, una croce contrassegnata dalla data. Al casellario giudiziario non risultava schedato, d’altro canto se avesse avuto la fedina penale sporca non gli avrebbero concesso un porto d’armi. Per anni quell’uomo aveva lavorato per conto di una società con sede a Maniago che estraeva e commercializzava materiali per le costruzioni.

Quei documenti d’identità erano il punto di partenza. L’uomo era in possesso di un passaporto rinnovato di recente, ma privo di visti di ingresso o di uscita dall’Italia. La prima ipotesi fu che lo avesse potuto utilizzare soltanto per recarsi nella vicina Croazia, un paese che ai cittadini italiani da qualche tempo non richiedeva più il visto.

Ma che cosa ci andava a fare in Croazia se ci era andato? Faceva il pieno di benzina alla macchina e i bagni a mare? O magari andava a donne? E a cosa gli serviva il porto d’armi? Era un appassionato di tiro? Trasportava valori per conto della cava dove lavorava? Aveva ricevuto minacce? Gli interrogativi fioccarono numerosi.

Aveva un telefono cellulare e dagli esami dei suoi tabulati e di tutti quelli venuti in contatto con lui nei giorni precedenti l’omicidio si potevano trarre tracce utili. Una volta ricevuta l’autorizzazione dal giudice per le indagini preliminari si procedette quindi alla verifica degli incroci e delle sovrapposizioni tra le varie utenze.

Infine c’erano i parenti, che per altro andavano avvisati del decesso. Il fratello maggiore abitava a Spilimbergo come lui, mentre la sorella risiedeva a Udine. Venne deciso di andare prima dall’uomo, soltanto dopo si sarebbero recati nel capoluogo friulano.

Della triste operazione vennero incaricati il maresciallo aiutante Oreste Zincone e il vicebrigadiere Silvano Toffanin.

Ormai si erano fatte le sette della sera e fuori era buio. Faceva un freddo cane, secco e pungente. I due sottufficiali della Sezione investigativa uscirono dalla caserma e raggiunsero l’autovettura di servizio parcheggiata fuori. Dovevano sbrigarsi a raggiungere il più vecchio dei Calegaro, volevano evitare che si coricasse, si trattava di una persona anziana e bisognava coglierne subito le impressioni senza attendere l’indomani. In situazioni come quella se non si perviene all’individuazione dell’assassino nelle prime quarantotto ore la soluzione del caso diventa difficile.

Entrati nell’abitacolo della Fiat Punto trovarono i cristalli della vettura completamente appannati. Parte della condensa accumulatasi all’interno era colata giù, sui pannelli vinilici di rivestimento delle portiere. Toffanin infilò la chiave nel cruscotto, ma al primo mezzo giro nel blocchetto il motore rifiutò di avviarsi. Tentò una seconda volta, ma come risultato ottenne un breve singhiozzo e basta. La macchina non era stata parcheggiata col muso rivolto al muro e adesso, col freddo, stentava a partire. Al terzo tentativo il vicebrigadiere riuscì finalmente a metterla in moto. Un denso sbuffo di fumo bianco fuoriuscì dalla marmitta rarefacendosi immediatamente nell’aria gelida. Uscirono dalla caserma e presero la strada di Spilimbergo.

 III

   Primo Calegaro rimase pietrificato, incredulo. Gli avevano comunicato la notizia verso le otto della sera, quando aveva già finito di consumare la cena. Un’ora prima aveva sentito al telefono sua sorella Ada, alla quale era profondamente legato. La chiamava sempre a quell’ora, i due anziani si rassicuravano reciprocamente che tutto fosse a posto per restare sereni prima della notte.

Quando la suoneria del citofono aveva squillato si era recato a rispondere convinto che si trattasse di qualche seccatore e invece si era trovato di fronte i carabinieri che lo informavano della tragica morte di suo fratello Nevio. Aveva reagito come un automa. Con gli occhi lucidi fissi nel vuoto aveva risposto meccanicamente alle domande postegli, come se in quel momento lì fosse completamente estraneo a quella cupa atmosfera nella quale era improvvisamente precipitato.

I due sottufficiali insistettero con estremo tatto.

«Signor Calegaro, che lei sappia, negli ultimi tempi era capitato qualcosa di strano a suo fratello? Ha notato in lui dei comportamenti anomali?»

Il vecchio rispose a fatica.

«Nevio …aveva quasi settant’anni, cosa volete che possa aver fatto. Chi può averlo ammazzato in quel modo?»

La sua mente divenne a tal punto confusa da porlo nelle condizioni di non poter più interloquire. Sempre più in ansia, iniziò a ripetere la stessa frase come un disco rotto.

«Non è che glielo avete già detto eh? Guardate che devo essere io a dirglielo, sennò le piglia il crepacuore a quella poveretta!»

I carabinieri lo tranquillizzarono rassicurandolo che lui stesso avrebbe potuto chiamare al telefono sua sorella Ada per metterla al corrente della tragedia. Ma Primo eccepì che ormai si era fatto troppo tardi, a quell’ora l’anziana donna era sicuramente a letto e chissà come avrebbe reagito a una notizia del genere. No, pretese di esserle fisicamente vicino per comunicarglielo di persona. Avrebbe preferito rimandare questa triste incombenza al mattino seguente, ma i militari non poterono assecondarlo: se non lo avesse fatto lui quella sera stessa – gli dissero – lo avrebbero fatto loro.

Giunsero a un compromesso: a Udine sarebbero andati tutti e tre insieme, così Primo avrebbe potuto parlare a sua sorella. In ogni caso prima di uscire le telefonò per avvisarla dell’imminente visita, preparandola a qualcosa di inaspettato e brutto.

(1-continua)

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