Che il clima al tavolo dei negoziati fosse di gran lunga più sereno rispetto alla precedente riunione dello scorso 23 aprile lo si sapeva già prima che i capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione europea si riunissero virtualmente in videoconferenza.
Al riguardo, nelle ore precedenti l’importante vertice si era espressa anche la cancelliera tedesca, che in un suo intervento al Bundestag aveva ribadito la conferma della disponibilità di Berlino a forme di solidarietà nei confronti dei Paesi membri, cioè, tradotto in termini concreti: soldi.
Ella resta comunque condizionata nell’azione sia dalle dinamiche politiche interne del suo Paese che dall’attesa sentenza della corte costituzionale tedesca, la cui pronuncia è prevista il 5 maggio prossimo venturo.
Una sentenza in qualche modo già scritta, poiché la Carta fondamentale della Repubblica Federale statuisce chiaramente che il governo non può agire in difformità alle leggi vigenti e alle disposizioni derivanti dai trattati stipulati nelle varie sedi internazionali.
Conseguentemente, anche se lo volesse davvero, Angela Merkel non potrà avallare soluzioni «creative» in materia di emissione di debito sui mercati al di fuori di un potere fiscale del quale l’Unione europea non ha attualmente prerogativa, se non in casi del tutto eccezionali facendo ricorso a una particolare strumentazione giuridica.
Dunque, per il momento gli spagnoli dovranno scordarsi della loro ipotesi relativa a un debito comune perpetuo che preveda di volta in volta alle scadenze soltanto il rimborso degli interessi maturati, mentre gli italiani dovranno probabilmente farsi una ragione degli agognati “corona bond”, che tanto lievemente avrebbero inciso sul loro stratosferico debito pubblico.
E allora?
E allora per il momento si va avanti così, anche se Giuseppe Conte e il suo esecutivo ha una fretta maledetta che i soldi arrivino al più presto possibile nelle casse di Via XX Settembre. E non ha certamente torto, visto che il limbo che sta attualmente vivendo il Paese è destinato a trasformarsi in breve tempo (si legga: fase due) in un inferno economico e sociale.
Senza adeguati finanziamenti europei la cosiddetta «ri-partenza» non è in grado di avere luogo, dunque si rende necessario abbandonare ogni incrostazione “ideologica” forse utile sul piano della propaganda politica interna per informare la propria condotta al più sano pragmatismo, anche se quest’ultimo costringerà a ingoiare qualche boccone amaro.
«Purché la Repubblica viva…» affermava quel tale.
In fin dei conti è lo stesso mantra divenuto un tormentone da giorni: evitare assolutamente lo scontro su basi ideologiche e fare ricorso a tutti gli strumenti disponibili al fine di addivenire a una definitiva soluzione comune che possa risollevare dalla crisi nella quale è stato precipitato il Paese per effetto della pandemia da Covid-19.
Dichiarazioni e sorrisi a parte, in fondo non si parte proprio da zero. Infatti, nel documento elaborato in precedenza dalla Commissione europea in vista di questo ultimo Consiglio europeo si faceva riferimento a un “piano” che potrebbe rinvenire una copertura finanziaria all’interno del (pur ridotto in termini percentuali rispetto al Pil comunitario) bilancio dell’Unione, qualche cosa come 2.000 miliardi di euro.
È vero, questo strumento potenziale sarebbe il frutto di una rimodulazione del quadro finanziario pluriennale europeo (il bilancio Ue 2021-2027) sul quale si è già litigato qualche tempo fa, cioè risorse che dovrebbero venire destinate in parte quale finanziamento del fondo comune per la ripresa e in parte a copertura degli impegni di spesa “ordinari”, quindi Pec, coesione, innovazione, Green Deal, e altro, con la certezza che la coperta troppo corta tirata da tutte le parti scopra i piedi di qualcuno rendendolo furioso.
Inoltre, si tratta di soldi non tutti immediatamente disponibili, come invece servirebbe, poiché dovranno in buona parte venire raccolti per effetto del ricorso a meccanismi finanziari.
Infine, va opportunamente sottolineato che si tratta di un piano che non è ancora un piano, poiché – almeno formalmente – non ha ancora ricevuto la sanzione ufficiale dalla Presidente Ursula von Der Leyen, purtuttavia rappresenta indubbiamente un passo in avanti.
Un riferimento in termini di cifre e orientamenti sul quale, con ogni probabilità, la von Der Leyen già da stasera butterà l’occhio, dato che adesso la patata bollente è passata nelle sue aggraziate e curate manine.
È infatti a lei che è stato conferito il mandato di costruire lo strumento che verrà successivamente utilizzato dai Paesi beneficiari per uscire (si spera definitivamente) dall’emergenza sanitaria e al contempo risollevarsi il più velocemente possibile dalla catastrofe economico-sociale incombente.
Sarà lei a doverlo fare anche perché, nonostante attorno al tavolo delle trattative aleggiasse un clima sicuramente meno teso, le divergenze tra i due blocchi di Paesi membri non sono evaporate d’incanto.
Approvato il “pacchetto” dell’Eurogruppo e il meccanismo SURE, non è stato tuttavia definita l’architettura del Recovery Instrument (sostanziale ridenominazione del noto Recovery Fund), che dovrà basarsi su titoli comuni europei.
Si tratterà di sovvenzioni a fondo perduto come vorrebbe Roma (molto difficile…) oppure di veri e propri prestiti come vogliono olandesi e tedeschi?
Nel primo caso (molto difficile…) si tratterebbe di stanziamenti rimborsabili nel medio-lungo termine per mezzo di «risorse proprie» (tasse europee) oppure attraverso contributi versati dai singoli Stati membri.
Nel secondo caso, invece, verrebbero erogati dei prestiti agli Stati membri che, in seguito, dovrebbero venire da essi rimborsati in tutto e per tutto con evidenti aggravi su bilanci e incrementi dei rispettivi debiti pubblici.
Le questioni permangono dunque aperte, ma va da sé che una soluzione a esse andrà necessariamente trovata, e ora, dato che un compromesso va raggiunto al massimo per i primi giorni del mese di giugno, poiché dopo le tensioni sociali dei Paesi maggiormente in difficoltà potrebbero degenerare.
La dolce Ursula von Der Leyen alla conclusione dell’importante vertice di oggi ha voluto tranquillizzare le opinioni pubbliche europee affermando «che non si tratta di una corsa contro il tempo».
Forse non è così, e questo lo sanno molto bene a Palazzo Chigi.