a cura di Giuseppe Morabito – Storicamente viene accettato che l’ultima migliore occasione per un piano di pace tra Israele e l’Autorità palestinese si era presentata nel 2008, quando l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert si disse disposto a cedere territori in Cisgiordania e a consentire ad alcuni rifugiati di tornare in possesso della terra.
OCCASIONI PERDUTE
Il governo israeliano apparve persino disposto a cedere il controllo della Città Vecchia di Gerusalemme a un comitato internazionale come parte del riconoscimento della Palestina quale stato sovrano. Il potenziale accordo andò però in fumo per ragioni che Olmert trova ancora difficile spiegare: «Era qualcosa che avrebbe cambiato il Medio Oriente», dichiarò in seguito nel corso di un’intervista affrontando il tema dei suoi colloqui falliti con il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), «non era pronto a correre alcun rischio». Dal canto suo, Abbas afferma che non gli sarebbe stata fornita l’opportunità di esaminare la mappa proposta della Cisgiordania, inoltre, eccepì che aveva chiesto più tempo. Alcuni giorni dopo Olmert si dimise per alcune accuse di corruzione e l’accordo fallì.
OGGI NESSUNO PENSA ALLA PACE
Nessuno in Israele oggi pensa a simili colloqui di pace, nel timore che uno stato palestinese sovrano troverebbe più facile organizzare un altro attacco come quello terroristico condotto da Hamas lo scorso ottobre, il cui bilancio è stato l’assassinio di 1.200 persone, che portò al conflitto di Gaza. Purtroppo la diplomazia è passata in secondo piano rispetto alle operazioni delle forze armate, riflettendo così anni di sfiducia e accordi falliti, atteggiamenti, a quanto pare, che non verranno invertiti in tempi brevi. I paesi democratici occidentali hanno ampiamente riconosciuto il diritto di difendersi in capo a Israele dal cosiddetto anello di fuoco creato dall’Iran e dai gruppi terroristici suoi alleati in Libano, Iraq, Siria e Yemen.
IL FRONTE NORD
La diplomazia non sembra più essere una priorità. Oggi il premier israeliano Benyamin Netanyahu afferma di aver negato fermamente di avere «silurato qualsiasi accordo a causa di considerazioni politiche», tuttavia, viene smentito dal ministro della Difesa Yoav Gallant, che già in precedenza aveva confermato che il centro di gravità si stava spostando verso nord, riferendosi egli alla «rinnovata attenzione» su Hezbollah. «Non abbiamo dimenticato gli ostaggi e non abbiamo dimenticato le nostre missioni nel sud – aveva quindi aggiunto -, siamo impegnati nei nostri compiti e li stiamo svolgendo simultaneamente». Gli attacchi ad alto livello tecnologico compiuti in Libano la settimana scorsa hanno neutralizzato molti centri di combattimento di Hezbollah, ma anche colpito la popolazione civile.
LA GUERRA IN LIBANO E IL DRAMMA DELLA POPOLAZIONE CIVILE
I bombardamenti hanno diffuso il panico in tutto il Paese, alimentando preoccupazioni a livello internazionale riguardo alla volontà di Israele di incrementare ulteriormente la tensione nella regione. Scosso dagli attacchi, in particolare da quello di venerdì scorso, Hezbollah ha risposto domenica con lanci di missili più in profondità nel territorio dello Stato ebraico rispetto al passato. Oggi la situazione è preoccupante. L’Unione europea ha invitato tutte le parti coinvolte a evitare una guerra totale, che avrebbe pesanti conseguenze per l’intera regione. Anche l’alleato più fermo e affidabile di Israele, gli Stati Uniti d’America, sembrerebbe allarmato dal fatto che i negoziati per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi nella striscia di Gaza sarebbero entrati in una fase di stallo dopo le esplosioni dei cercapersone di Hezbollah, negoziati di per sé già complicati a causa della morte dei massimi leader di Hamas, Hezbollah e di altri gruppi palestinesi come la Jihad islamica.
IL CONFLITTO CON L’OCCHIO DI WASHINGTON
«Qualsiasi cosa di questo tipo, per definizione, probabilmente non va bene in termini di raggiungimento del risultato che vogliamo, che è il cessate il fuoco», ha commentato mercoledì in Egitto il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken, quando gli è stato chiesto se l’attacco avvenuto in Libano rendesse i colloqui per Gaza più difficili. Un altro inviato speciale americano, Amos Hochstein, era in settimana in Israele allo scopo di sensibilizzare Gerusalemme ed evitare un’altra escalation della tensione con Hezbollah, anche alla luce dei disaccordi tra la casa Bianca e il governo Netanyahu sulle tattiche e su come misurare il rischio di escalation. Al Consiglio israelo-americano di Washington è apparso chiaro che gli americani vogliono una soluzione diplomatica nel Nord. Gli Stati Uniti collaborano da anni con Israele per rafforzare le relazioni con gli stati vicini, scettici od ostili.
IL RUOLO DEI SAUDITI
Nel 2022 Washington ha sostenuto un accordo allo scopo di consentire alle compagnie occidentali di esplorare la ricerca di gas naturale nel territorio conteso tra Israele e Libano, dove Hezbollah è al governo. Inoltre, l’amministrazione Trump era stata ispiratrice della mediazione che nel 2020portò agli Accordi di Abramo, che hanno normalizzato le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e Bahrein, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti. Sfortunatamente, le recenti speranze che l’Arabia Saudita accettasse finalmente di aderire agli accordi sono state deluse la scorsa settimana, quando il principe ereditario Mohammed bin Salman, in un discorso pronunziato in nome del sovrano saudita ha ribadito che non ci sarebbero state normali relazioni diplomatiche con Israele finché la Palestina non fosse stata riconosciuta quale stato indipendente.
I NEGOZIATI DI GERUSALEMME
Gerusalemme non negozia direttamente con Hamas o Hezbollah (vogliono entrambi la cancellazione di Israele), che per altro l’Occidente considera organizzazioni terroristiche. Inoltre, non negozia con l’Iran, che sostiene entrambi i gruppi terroristici, così come gli Houthi nello Yemen. Israele e i suoi alleati affermano che è irrealistico e ingenuo aspettarsi sforzi diplomatici con gruppi che stanno cercando di porre fine alla sua esistenza. I contatti diplomatici di Israele con i suoi nemici avvengono dunque attraverso intermediari, principalmente Stati arabi del Medio Oriente, ma anche Stati Uniti d’America e Paesi europei. Ma, i tentativi di diplomazia con l’Iran non equivarranno mai a più di un cessate il fuoco, a patto che le ambizioni di Teheran non mutino e la teocrazia rinunci all’ambizione di distruggere Israele.
E ADESSO?
Va comunque tenuto conto che la caratteristica distintiva di Israele fin dalla sua creazione nel 1948 è stata quella di utilizzare mezzi militari ed economici per “contenere” i suoi vicini. Molti in Israele ritengono che Hezbollah continuerà i suoi attacchi finché i combattimenti a Gaza non finiranno e/o gli ostaggi israeliani non verranno liberati in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi. Anche se Gerusalemme considerasse possibile un esito favorevole dei negoziati, un accordo di pace sembra fuori luogo a causa del difficile rapporto tra Hamas a Gaza e l’Autorità palestinese in Cisgiordania.
LA SPERANZA NELLA DIPLOMAZIA
Va al riguardo ricordato che ai tempi dell’amministrazione Obama fallì un tentativo di accordo (era il 2014), così come una proposta dell’amministrazione Trump venne categoricamente respinta dai palestinesi. In ogni caso in Israele c’è chi crede che sia giunto il momento di concentrarsi sulla negoziazione per far cessare la guerra a Gaza e trovare un compromesso con Hezbollah che consenta ai cittadini di tornare alle loro case nell’alta Galilea. Dunque c’è chi preferirebbe negoziare piuttosto che combattere, considerando il combattimento, se inevitabile, quale ultima risorsa. La diplomazia rimane ancora una speranza: diamole credito.