SALUTE, patologie e cura. Artrite reumatoide: l’immunoterapia con i BiTE potrebbe risolvere i casi gravi e resistenti alla terapia

Uno studio recentemente pubblicato su “Nature Medicine” da un gruppo di ricerca italo-tedesco, al quale ha preso parte l’Università Cattolica/Fondazione Policlinico Gemelli, propone una nuova via di trattamento all’artrite reumatoide che potrebbe rivoluzionare la terapia dei casi gravi e resistenti alle terapie attuali. La ricerca ha dimostrato che l’impiego degli anticorpi monoclonali bispecifici (BiTE) permette ai linfociti T di distruggere i linfociti B «ribell»I, produttori degli auto-anticorpi responsabili della malattia, senza importanti effetti collaterali

Roma 2 maggio 2024 – Potrebbe essere l’alba di una nuova era nella terapia dell’artrite reumatoide, quella annunciata dai risultati di una ricerca italo-tedesca pubblicata su Nature Medicine e siglata dal gruppo della professoressa Maria Antonietta D’Agostino direttore della UOC di Reumatologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e ordinario di Reumatologia all’Università Cattolica e del professor Georg Schett dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Norimberga (FAU).

LO STUDIO PUBBLICATO SU “NATURE MEDICINE”

Lo studio appena pubblicato ha esplorato un nuovo possibile approccio terapeutico a questa malattia autoimmune, che consiste nell’organizzare una sorta di appuntamento al buio tra le cellule B e le cellule T, le due protagoniste della risposta immunitaria; incontro che si conclude con l’eliminazione delle cellule B malate (cioè quelle che producono gli anticorpi responsabili dell’infiammazione e della distruzione delle articolazioni), da parte delle cellule T suppressor. A organizzare questa sorta di imboscata immunitaria è il blinatumomab (o BLINA), un immunoterapico già utilizzato per il trattamento di alcuni tumori del sangue. Nel caso dell’artrite reumatoide il suo impiego è sperimentale, ma in questa ricerca ha ottenuto un effetto straordinario e inedito sul piano del risultato terapeutico.

CELLULE «BUONE» E CELLULE «CATTIVE»

Lo studio su Nature Medicine. Illustra all riguardo la professoressa D’Agostino: «Nei sei pazienti con artrite reumatoide multi-resistente al trattamento, tra i quali ne figura anche una italiana, ai quali è stato somministrato in via compassionevole e sperimentale BLINA, il farmaco ha prodotto un rapido declino dell’attività di malattia, riducendo il livello di anticorpi circolanti e migliorando l’infiammazione dei tessuti sinoviali, come abbiamo documentato all’ecografia, alla FAPI-PET-TAC e con l’analisi trascrittomica dell’infiammazione della membrana sinoviale. La terapia è stata molto ben tollerata (i pazienti hanno presentato solo un temporaneo rialzo della temperatura alla prima infusione, ma nessun segno di sindrome da rilascio delle citochine». Sofisticate analisi di laboratorio, come la citometria a flusso ad alta dimensione) hanno confermato che il miglioramento clinico è dovuto ad un reset immunitario, consistente nell’eliminazione delle cellule B cattive, cioè con la memoria “attivata” a produrre continuamente auto-anticorpi, che vengono rimpiazzate da cellule B buone.

T-CELL ENGAGER

«Questi risultati, molto promettenti per l’entità della risposta e la tollerabilità del farmaco – prosegue la D’Agostino – suggeriscono la potenziale utilità di questo approccio terapeutico nelle forme più gravi di artrite reumatoide, resistenti alla terapia e potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova era di trattamento per altre malattie autoimmuni mediate dalle cellule B, dal lupus, alla sclerodermia. La via del T-cell engager per distruggere i linfociti B, produttori di auto-anticorpi, che mantengono lo stato di attività di malattia e responsabili della mancata risposta ai farmaci attualmente utilizzati, potrebbe dunque portare ad una nuova maniera di aggredire le patologie autoimmuni, sfruttando l’azione del nostro stesso sistema immunitario. È lo stesso concetto utilizzato dalla terapia con CAR-T, nella quale i linfociti T vengono “attivati” per distruggere i linfociti B auto-reattivi».

BLINA, ANTICORPO MONOCLONALE BISPECIFICO

Il BLINA è un anticorpo monoclonale bispecifico, cioè “a due braccia” (il nome tecnico è BiTE, Bispecific T-cell engager), una forma di immunoterapia che provoca la distruzione delle cellule B ad opera delle cellule T suppressor, facilitandone l’incontro. È insomma un farmaco facilitatore, che avvicina tra loro queste due categorie di cellule, rendendo più efficace l’eliminazione da parte linfociti T nei confronti delle cellule B “deviate”, cioè con la memoria bloccata nella produzione incontrollata di anticorpi rivolti contro le articolazioni, nel caso dell’artrite reumatoide. Già in passato, nell’artrite reumatoide erano stati fatti vari tentativi di inibire le cellule B, ma con risultati insoddisfacenti. Sfruttando invece l’azione delle cellule T, l’inibizione delle B “ribelli” risulta molto più efficace perché BLINA riesce a stanare anche quelle ben nascoste nei tessuti, andando a «tirarle per un braccio» per portarle al cospetto delle cellule T suppressor. Ecco perché, anche nelle forme di artrite reumatoide resistenti alle terapie (che sono la metà delle forme gravi), si assiste a un crollo dell’infiammazione e a un importante miglioramento del controllo di malattia.

ARTITE REUMATOIDE

L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune infiammatoria che colpisce le articolazioni e porta ad una loro distruzione progressiva e a disabilità. Protagoniste della sua patogenesi sono le cellule B che producono in maniera incontrollata anticorpi diretti contro i tessuti delle articolazioni. A soffrire di questa malattia sono oltre 410.000 gli italiani, otto su dieci sono donne, il 40% dei quali in forma grave. Oltre metà delle forme gravi presenta resistenza alle terapie oggi disponibili. Fondamentale è diagnosticare la malattia prima che arrivi a far danni irreversibili, iniziando subito un trattamento con i tanti farmaci a disposizione, dai classici DMARD, ai biologici e alle piccole molecole. Ma le persone affette dalle forme più gravi spesso sono resistenti ai farmaci, anche di ultima generazione. Ecco perché i risultati di questo studio aprono le porte alla speranza di un trattamento anche per i casi più complessi e difficili.

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