KURDISTAN, proteste e repressioni. Una minoranza perennemente perseguitata

La Turchia ha giustificato i nuovi attacchi in Siria e Iraq con la necessità di rispondere all’attentato compiuto a Istanbul il 13 novembre scorso, attribuito al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nonostante quest’ultimo avesse negato il proprio coinvolgimento. A rimetterci è sempre la popolazione curda, mentre l’Occidente è restio ad assumere una posizione chiara, soprattutto nei confronti di Ankara. Ancora oggi, nel 2024, molte persone non sanno chi siano i curdi, nonostante si tratti della più grande popolazione del mondo priva di uno Stato. Essa conta all’incirca quarantacinque milioni di persone e vive in quattro diversi Stati: Turchia, Siria, Iran e Iraq

a cura di Shorsh Surme, pubblicato su “Panorama Kurdo” il 29 gennaio 2024,  https://www.panoramakurdo.it/2024/01/29/i-curdi-perennemente-perseguitati/ Turchia e Iran stanno conducendo offensive e in entrambi i casi l’obiettivo è lo stesso: la popolazione curda. Dall’inizio delle proteste iraniane, il regime degli ayatollah attribuisce ai curdi la responsabilità dei principali disordini interni e porta avanti una dura repressione nel Kurdistan. Proprio oggi sono stati impiccati quattro giovani, il più grande aveva ventisette anni, si tratta di un massacro che continua da anni nel silenzio della stampa internazionale.

REPRESSIONI IN IRAN E TURCHIA

La Turchia ha invece giustificato i nuovi attacchi in Siria e Iraq con la necessità di rispondere all’attentato di Istanbul del 13 novembre scorso, attribuito al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), nonostante quest’ultimo avesse negato il proprio coinvolgimento. Le ragioni di questi attacchi sono diverse tra loro, e in entrambi i casi interessano più la politica interna dei rispettivi paesi che quella estera. A rimetterci è la popolazione curda, mentre l’Occidente è restio a prendere una posizione chiara, soprattutto nei confronti di Ankara. Ancora oggi, nel 2024, molte persone non sanno chi siano i curdi, nonostante si tratti della più grande popolazione del mondo priva di uno Stato. Essa conta all’incirca quarantacinque milioni di persone e vive in quattro diversi Stati: Turchia, Siria, Iran e Iraq. All’interno di questi singoli paesi i curdi sono coinvolti in misura diversa nella vita pubblica e godono di vari gradi di autonomia. Il tentativo di creare un proprio Stato indipendente, cioè un Kurdistan sovrano, ha sempre dovuto fare i conti con la volontà nazionale di questi quattro Stati. Solo in Iraq i curdi sono riusciti a istituire un governo regionale, il Kurdistan iracheno.

KURDISTAN: LO STATO CHE NON C’È

Dopo la fine della Prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero Ottomano, le forze indipendentiste iniziarono a prendere forza, e la creazione del Kurdistan fu promessa attraverso il Trattato di Sévres, stipulato tra le potenze occidentali e l’Impero nel 1920. Questa decisione fu revocata solo tre anni dopo dal Trattato di Losanna, che non menzionò quanto precedentemente concordato. Da quel momento in poi i vari tentativi dei curdi di costruire una propria nazione verranno fermati, spesso con la forza. Nel tempo sono nati diversi partiti con l’aspirazione di dare fondamento allo Stato curdo. Tra questi il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, dal 1984 ha intrapreso la lotta armata contro la Turchia. Per questo motivo il gruppo è stato incluso da Turchia, Stati Uniti d’America, Unione Europea, Iran e dalla NATO nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. In Iran, fin dall’inizio delle proteste la repressione del regime ha colpito con estrema forza la regione curda.

LE PROTESTE INNESCATE DALL’ASSASSINIO DI MAHSA AMINI

Sono state proprio le città curde l’epicentro dei movimenti interni che in breve tempo si sono diffusi nel resto del paese. Inoltre era curda Mahsa Jina Amini, la ragazza di ventidue anni uccisa a Teheran dalla polizia religiosa del regime teocratico il 13 settembre scorso. L’ormai noto slogan «Donna, vita, libertà!» è nato nel contesto delle rivendicazioni della popolazione curda iraniana e, in particolare del movimento di liberazione delle donne curde. In generale le proteste avrebbero potuto essere un momento di riflessione sulle discriminazioni e sugli abusi subiti per decenni dai cittadini curdi dell’Iran, ma sembra che questa occasione sia stata sprecata. In un articolo di Farangis Ghaderi e Ozlem Goner, pubblicato su “Internazionale”, gli autori sottolineano il mancato riconoscimento dell’identità curda della prima vittima di queste proteste. Da qui l’esigenza di ricordarla con il suo nome curdo, ovvero Jina, letteralmente «dare la vita», in un paese dove è vietato dare nomi curdi ai propri figli.

PASDARAN A MAHABAD

Non c’è da stupirsi che il regime abbia cercato di additare la minoranza curda dell’Iran, la quale conta circa dieci milioni di individui, come la principale responsabile delle proteste, cogliendo poi l’occasione per aumentare la pressione nelle regioni curde. I Guardiani della Rivoluzione continuano a entrare nelle città del Kurdistan iraniano, e il 20 novembre a Mahabad si sono contate una trentina di vittime. Tuttavia la popolazione curda non è sotto attacco solo in Iran, ma anche in Siria e Iraq, dove le forze armate turche stanno conducendo l’offensiva denominata «Claw-Sword», in risposta all’attacco terroristico perpetrato a Istanbul il 13 novembre scorso. Il presidente Recep Tayyp Erdoğan aveva annunciato da tempo l’intenzione di intervenire in queste zone, ma fino ad allora la sua azione era stata fermata da Teheran e Mosca.

ATTENTATO A ISTANBUL: C’ENTRANO IL PKK E LE YPG?

Tuttavia la situazione iraniana e la bomba che ha colpito Istanbul hanno cambiato la situazione, e l’attacco è stato il prestesto per la ripresa dei bombardamenti, che finora hanno causato la morte di quasi trecento curdi, tra cui molti civili. Sussistono, però, ancora molti dubbi sulla possibilità che dietro quanto accaduto a Istanbul possa esserci la mano del PKK o delle milizie siriane affiliate ai combattenti delle Unità di protezione popolare (YPG), come affermato dalle autorità turche. I due gruppi hanno negato ogni forma di coinvolgimento nell’attacco, che ha causato sei morti e ottantuno feriti.​

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