UNGHERIA, ebrei e shoah. Una inchiesta negli archivi vaticani

Dopo la menzione sullo scottante e controverso argomento fatta dal Pontefice nel corso del suo viaggio a Budapest, ha preso avvio l’attività di alcuni studiosi che nel mese di ottobre sono giunti appositamente a Roma per consultare i documenti conservati negli scaffali entro le Mura leonine. Al centro le tragiche vicende di centinaia di migliaia di esseri umani di Ungheria e Slovacchia perseguitati, deportati e sterminati nei campi nazisti con la complicità dei loro alleati di allora, l’ammiraglio Horty e monsignor Tiso. Il «cauto atteggiamento» di Pio XII

a cura di Andrea Gagliarducci, vaticanista dell’agenzia giornalistica ACI Stampa – Durante il suo viaggio a Budapest, nel suo discorso rivolto alle autorità Papa Francesco ha fatto menzione della persecuzione degli ebrei ungheresi. Il Pontefice ha anche ricordato le figure dei tanti «giusti valorosi», come il nunzio Angelo Rotta, oltre alla resilienza che aveva portato a ricostruire. Oggi Budapest ospita la sinagoga più grande d’Europa, l’Ungheria è uno dei Paesi con la maggior percentuale di popolazione ebraica che guarda agli eventi della Shoah con la volontà di fare chiarezza su quella pagina ancora tutta da definire della storia del Paese.

UN GRUPPO DI RICERCA SULLA SHOAH

Per questo, dal 30 novembre 2022 è attivoun gruppo di ricerca che indaga sulla persecuzione degli Ebrei ungheresi nel XX secolo, a guidarlo è Krisztina Tóth, delegata speciale per la cooperazione archivistica dell’Ambasciata di Ungheria presso la Santa Sede. Esso è costituito dai ricercatori inviati da diverse istituzioni magiare al fine di scandagliare gli archivi vaticani del pontificato di Pio XII, recentemente aperto agli storici. Si tratta dell’Archivio Nazionale Ungherese, il Centro di Ricerca per le Scienze Sociali, l’Istituto per gli Studi delle Minoranze, il Centro di Ricerca Umanistica, l’Istituto di Storia e il Centro per la Memoria dell’Olocausto; a questi, si aggiungerà in seguito anche l’Istituto Ungherese di Storia ebraica.

APERTI GLI ARCHIVI VATICANI

In particolare, due di questi ricercatori, László Karsai e Attila Jakab, hanno trascorso l’autunno a Roma a esplorare gli archivi vaticani a Roma, inclusa la nuova serie di fonti resa disponibile dalla Santa Sede lo scorso anno, quali lettere di richiesta di aiuto di cristiani e israeliti al tempo in fuga dalla persecuzione nazifascista unitamente alle bozze di risposta a tali richieste. È la cosiddetta “Serie Ebrei” dell’Archivio storico della Segreteria di Stato vaticana, che non è ordinata per Paese, bensì indicizzata in ordine alfabetico in relazione alle persone che chiesero aiuto. Si rinvengono nnumerosi riferimenti a ebrei ungheresi in questa serie, che si vanno ad aggiungere alle diverse fonti relative agli ebrei ungheresi, fornendo così, assieme al materiale degli archivi ungheresi, un quadro maggiormente completo.

L’IMPORTANZA DELL’INIZIATIVA

Ma, perché questa ricerca è così importante? Perché la deportazione degli Ebrei ungheresi costituisce una delle pagine di storia più controverse e dolorose per quel Paese. All’inizio del 1944 in Ungheria erano presenti 725.000 ebrei, dopo l’annientamento delle comunità ebraiche di Unione Sovietica e Polonia quella ungherese risultò essere la più grande in Europa. Questa era la situazione quando Hitler ordinò l’occupazione militare del Paese, temendo che gli ungheresi, allora alleati della Germania nazista, abbandonassero il conflitto. Contestualmente all’ingresso delle truppe, il Führer inviò i funzionari dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich per procedere alla deportazione degli ebrei di Ungheria, un compito così delicato che la responsabilità venne affidata ad Adolf Eichmann in persona. Ed Eichmann, per evitare casi come quello della fuga degli ebrei danesi dell’ottobre 1943 e della rivolta del ghetto di Varsavia dell’aprile 1943 coinvolse le forze locali dopo averne superato le resistenze.

GLI STORICI A ROMA

L’Ungheria fu quindi suddivisa in cinque zone, più quella della capitale Budapest, che vennero rastrellate con la motivazione ufficiale delle operazioni belliche. Gli ebrei, un totale di 438.000, furono deportati ad Auschwitz, Birkenau e in altri campi di sterminio. È importante comprendere la storia, definire le responsabilità, comprendere anche il ruolo degli ebrei ungheresi e della Santa Sede. Ma cosa hanno trovato gli storici che sono stati a Roma in autunno? László Karsai dirige il gruppo di ricerca degli archivi Yad Vashem in Ungheria dal 1994. È entrato nel progetto in quanto inviato dal Centro di Ricerca per le Scienze sociali e l’Istituto per gli Studi sulle Minoranze, in qualità di loro rappresentante. Karsai è un ricercatore di fama internazionale sull’Olocausto degli zingari e degli ebrei di Ungheria e sulla storia dei movimenti di estrema destra ungheresi, in particolare del Partito della Croce frecciata, costituito per sostenere il governo filonazista nell’Ungheria occupata.

CAUTO ATTEGGIAMENTO DI PIO XII

Durante la sua ricerca nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato, Karsai ha trovato quindici nuovi documenti mai pubblicati, i quali, egli ha illustrato ad ACI Stampa, «dipingono un quadro estremamente vivido della persecuzione e del massacro di massa degli ebrei, organizzato e deliberato. D’altra parte, sembra che Pio XII fosse circondato da persone, come Angelo Dell’Acqua, per altro molto attivo durante la guerra nel salvataggio di alcuni israeliti convertiti al cattolicesimo, che non erano lontani dall’antigiudaismo». Karsai ritiene che dai documenti ora scoperti risulti chiaro che fu soprattutto grazie alle pressioni del governo americano e di varie organizzazioni ebraiche che Pio XII fu finalmente disposto a inviare al governatore Horthy, il 25 giugno 1944, un telegramma relativamente cauto in favore degli ebrei ungheresi per fermare la loro deportazione.

LE MARCE DELLA MORTE

Egli cita altresì il rapporto dettagliato dell’8 dicembre 1944 del nunzio apostolico a Budapest, Angelo Rotta, che fu scritto da Hegyeshalom e concernette le marce della morte, aggiungendo: «A mio parere personale, alcune parti del suo racconto sono consigliate solo a lettori con nervi molto saldi». Presso l’Archivum Romanum Societatis Iesu Karsai ha inoltre esaminato le carte del gesuita Padre Tacchi Venturi. Questo materiale completa bene i 2.800 casi pubblicati negli imponenti volumi della serie “Ebrei”. I sostenitori dei singoli supplicanti e richiedenti aiuto ungheresi sono spesso vescovi e arcivescovi cattolici, quindi prelati di alto rango. In alcuni casi, non conoscevano personalmente l’ebreo convertito perseguitato, ma soltanto attraverso il suo confessore o la moglie e il marito italiani.

SFUGGIRE AL «NUMERUS CLAUSUS»

Alcuni dei richiedenti erano emigrati in Italia negli anni Venti del secolo scorso per sfuggire alla legge ungherese del numerus clausus, norma che commisurava l’accesso agli studi superiori delle varie nazionalità alla loro incidenza percentuale sulla popolazione complessiva, riducendo così per tutto il periodo interbellico il numero degli studenti di religione o di origine ebraica dal 30% a circa l’8-10 per cento. In Italia gli ebrei ungheresi poterono iscriversi alle varie università e, naturalmente, fecero amicizia, e più di uno di loro si sposò o convolò a nozze con un cittadino italiano non ebreo. Tutto questo mutò nel 1938 con l’introduzione delle leggi antisemite nel Regno d’Italia.

1938: LE LEGGI RAZZIALI DEL DUCE E DEL RE

Queste lettere e petizioni sono indispensabili per scoprire la rete di contatti di Tacchi Venturi. È quasi incredibile l’impegno con cui lavorava, come si evince dal fatto che a volte cercava di aiutare diversi ebrei in un solo giorno, scrivendo lunghe lettere con motivazioni dettagliate. Se necessario, e se vedeva una speranza di successo, si spingeva fino ai livelli più alti del Ministero degli Interni e del Ministero degli Affari Esteri per conto di un ebreo.  Nel caso di diversi perseguitati, descriveva anche brevemente e informava le autorità vaticane perché non vedeva alcuna speranza di intercedere. L’altro ricercatore giunto a Roma è Attila Jakab, che dal 2017 lavora presso il Centro Memoriale dell’Olocausto, istituzione che elabora e conserva la storia della persecuzione moderna degli ebrei ungheresi, dei cittadini che sono stati dichiarati ebrei per motivi razziali e il percorso che ha portato a questa persecuzione, nonché le sue conseguenze.

ANTISEMITISMO ECCLESIASTICO ED EBRAISMO AL TEMPO DI HORTHY

Tra i principali interessi di Jakab, l’antisemitismo ecclesiastico e l’immagine dell’ebraismo nell’epoca di Horthy e il rapporto tra ebraismo e antico cristianesimo; nel 2021 ha pubblicato un libro in lingua ungherese intitolato “Servire la pace, la tranquillità e la sicurezza del paese, La stampa ecclesiastica ungherese durante le leggi ebraiche (1938-1942)”. A suo avviso, che ha avuto modo di consultare i materiali dell’Archivio storico della Segreteria di Stato e dell’Archivio apostolico vaticano, «l’apertura degli archivi vaticani riguardanti del pontificato di Pio XII offre al ricercatore uno spaccato della diplomazia in un periodo di guerra. La rete diplomatica della Santa Sede, attraverso le nunziature, gestiva e deteneva una vasta quantità di informazioni. Le nunziature fungevano da snodi della rete informativa». Secondo Jakab, serve un nuovo approccio al periodo e a come la Santa Sede lo ha affrontato.

NECESSARIO UN NUOVO APPROCCIO

«Nella Santa Sede – afferma – prevalevano soprattutto le strategie ecclesiastiche, mentre il mondo in guerra, e soprattutto gli ebrei, perseguitati e condannati all’annientamento fisico dai nazisti e dai loro alleati, guardava al Papa e alla Santa Sede come autorità morale. Questo portò a una contraddizione irrisolvibile, che alcuni ecclesiastici, ad esempio i nunzi Cassulo di Bucarest o Rotta di Budapest, che entrarono in contatto con la persecuzione degli ebrei, cercarono di risolvere sulla base dei loro valori umani individuali». Jakab aggiunge inoltre che «le varie organizzazioni ebraiche europee cercarono di raccogliere informazioni e di inviarle alla Santa Sede, chiedendo aiuto al Papa. Da parte loro, queste organizzazioni fecero del loro meglio. Purtroppo, non avevano né i mezzi né il margine di manovra. Secondo me, al di là del Papa medesimo varrebbe la pena di concentrarsi sui diversi livelli della diplomazia vaticana, in particolare sulle attività e le posizioni della Segreteria di Stato dell’epoca. La gestione e l’elaborazione delle innumerevoli domande individuali ricevute potrebbe essere d’aiuto in questo senso. In effetti, i documenti del nunzio Cassulo a Bucarest mostrano che furono ricevute molte richieste individuali di assistenza».

SANTA SEDE ED EBREI BATTEZZATI

Tuttavia, Jakab sostiene che è chiaro «come la Santa Sede fece del suo meglio per garantire la vita religiosa indisturbata degli ebrei battezzati, ma non superò la categorizzazione razziale secondo cui gli ebrei battezzati erano prima di tutto ebrei e solo dopo cristiani». La guida del progetto di ricerca è Krisztina Tóth, la cui area professionale di specializzazione è il Novecento e le relazioni tra l’Ungheria e la Santa Sede nel XX secolo. Più recentemente, la Tóth ha scritto un saggio su Margit Slachta (fondatrice delle Suore del Servizio sociale) sulle sue strategie per rispondere alla crisi dei tempi, per questo ha esaminato il materiale relativo nell’Archivio storico della Segreteria di Stato. Questo studio non verte esclusivamente sulla deportazione degli ebrei slovacchi e la strategia di Slachta di salvarli, ma tutta la questione realativa alle deportazioni vaticane.

DEPORTAZIONI IN SLOVACCHIA: IL VATICANO ERA INFORMATO

«Il Vaticano – ha ella argomentato – era già stato informato delle deportazioni previste in Slovacchia da diverse fonti, dapprima dal nunzio apostolico a Budapest il 26 febbraio 1943, lettera che era certamente in possesso della Segreteria di Stato il giorno 2 marzo. Tuttavia, soltanto il 6 marzo Giuseppe Burzio, rappresentante della Santa Sede in Slovacchia, venne incaricato di prendere le misure necessarie e, se la notizia si fosse rivelata vera, di profondere ogni sforzo possibile presso il governo per salvarli». La Tóth si dice infatti convinta che «a questo potrebbe aver contribuito il fatto che il 5 marzo Margit Slachta recò alla Segreteria di Stato la sua petizione in favore degli ebrei slovacchi perseguitati. Tuttavia, in quel momento monsignor Burzio non ravvisò la necessità di intervenire, però, quando lo fece, in aprile, si riferì all’istruzione della Segreteria di Stato del 6 marzo. Quindi aveva parlato con il ministro degli Esteri slovacco. Anche se lui non si convinse, il Consiglio dei ministri alla fine accettò di sospendere l’espulsione di 4.000 persone che era stata precedentemente disposta dal ministro dell’Interno.

I RISULTATI DELL’INCHIESTA

«In definitiva – sottolinea la Toth -, seppure indirettamente gli sforzi di Margit Slachta contribuirono a che Burzio venisse incaricato di parlare in favore degli ebrei e che le deportazioni fossero finalmente interrotte». Finora il gruppo di ricerca ha raccolto tutto ciò che ha un riferimento all’Ungheria della “Serie Ebrei”, fonti che verranno presto pubblicate con regesti e note a pie’ di pagina. La collezione di fonti non copre solo le lettere di richiesta provenienti dal territorio dell’Ungheria storica, ma anche a cittadini ungheresi stabilitisi in Italia. I riferimenti sono a volte inclusi sotto un unico nome, che tuttavia copre più casi. Il materiale di Ebrei si concentra sugli anni dal 1938 al 1941, quando in diversi paesi vennero approvate leggi antisemite e chi, suo malgrado, ne divenne oggetto cercò di evitarne i tragici effetti facendosi dichiarare cristiani, quindi  «ariani», oppure emigrando all’estero. Molti cercarono di ottenere visti di espatrio per i paesi del Sud America, in primo luogo per il Brasile, sperando nell’aiuto della Sede apostolica, non invano.

L’AIUTO DEL BRASILE

Attraverso la sua ambasciata presso la Santa Sede il Brasile offrì 3.000 visti a coloro i quali erano stati battezzati da almeno tre anni. C’era, però, chi aspettava il visto per attraversare diversi confini di Stati per raggiungere l’America, o chi era stato internato nei campi di concentramento in Italia e voleva essere trasferito in un altro campo con la propria famiglia. Infine, c’era anche chi chiedeva un lavoro o degli aiuti. Questo quadro è ben completato del materiale di altre serie dello stesso archivio e anche da quelli estratti da diversi altri archivi a Roma e in Ungheria. «Tra gli obiettivi che ci siamo posti – conclude la Tóth – c’è quello di organizzare un convegno in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Olocausto, che veda la partecipazione di relatori che sintetizzino i risultati dalle fonti locali con quelli dagli archivi vaticani e romani».

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