Non è stato dunque raggiunto un accordo tra il socio pubblico e quello privato sul rifinanziamento di Acciaierie d’Italia, quella iniezione di capitale necessaria alla prosecuzione delle attività produttive negli stabilimenti di Acciaierie d’Italia.
INDISPONIBILITÀ DEL SOCIO PRIVATO
Registrata l’indisponibilità del socio privato di finanziare in quota parte (il 62% che detiene in Acciaierie d’Italia), quanto si renderebbe necessario all’ex Ilva per scongiurare lo stop della produzione e la messa in liquidazione della società. È il muro contro muro tra azionisti, altro che negoziato tra il ministro Raffaele Fitto e ArcelorMittal. infatti, la multinazionale franco-indiana non è affatto intenzionata a seguire le indicazioni del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, che in precedenza aveva sottolineato come «l’azionista pubblico fosse pronto a fare la sua parte, a condizione che il privato facesse altrettanto».
MANCANO 320 MILIONI
Per non spegnere gli altiforni occorrono 320 milioni di euro, cifra che avrebbe dovuto venire coperta per un 38% da Invitalia e per il rimanente 62% da Mittal, ma le cose sono andate diversamente. A questo punto, confermata l’intenzione di ArcelorMittal di non mantenere il controllo sulle acciaierie italiane, qualcosa che non pochi immaginavano, si ritorna a parlare di una assunzione di responsabilità da parte dello Stato attraverso l’acquisizione della maggioranza, convertendo in capitale tramite Invitalia i 680 milioni di prestito obbligazionario erogati la primavera scorsa.
ARCELOR MITTAL SI SFILA
ArcelorMittal ha tuttavia chiesto la convocazione di un’ennesima assemblea per il 6 dicembre, magari come ultimo tentativo di negoziato, seppure il socio privato straniero abbia le idee molto chiare già da tempo: ritiro del management straniero dall’Italia, deconsolidamento della società italiana del gruppo, partecipazione virtuale all’ultimo prestito obbligazionario (Mittal si è limitata a convertire crediti per 70 milioni di euro a fronte dei 680 stanziati dallo Stato italiano). Ora, l’ultimo decreto «salva ex Ilva» stabilisce che il socio pubblico possa, appunto, convertire in capitale i 680 milioni di prestito obbligazionario e assumere il controllo di AdI.
NAZIONALIZZARE L’EX ILVA?
Il Governo, per bocca del ministro per le Imprese Adolfo Urso, si era anche detto disponibile a un passo del genere, ma poi la gestione del dossier, con la connessa perdurante trattativa, è passata nelle mani del ministro Raffaele Fitto. Ora però si è giunti al redde rationem, con l’ex Ilva che chiuderà l’anno in corso con tre milioni di tonnellate di acciaio prodotti a fronte dei quattro milioni previsti, la cassa integrazione costante e gli impianti industriali che versano in uno stato critico. In assenza di un adeguato sostegno finanziario Acciaierie d’Italia sarà costretta a ridurre ulteriormente la produzione a causa della riduzione dell’acquisto di materie prime. Attualmente gli impianti di Taranto producono 8.000 tonnellate di acciaio al giorno con due altiforni, ma sono in grado di utilizzare un forno solo, producendo 5.000 tonnellate, tuttavia sotto le 4.000 tonnellate un altoforno non può scendere.
CONFINDUSTRIA SPERA IN UNA SOLUZIONE, I SINDACATI DI BASE DUBITANO
Nella giornata di ieri il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, al riguardo aveva dichiarato che «questo paese deve decidere se vuole l’acciaio o no», aggiungendo di credere che «sia fondamentale averlo, perciò spero in una soluzione». Di diverso avviso, invece, i sindacati di base, che non nutrono aspettative nell’assemblea dei soci. «Il Governo svende il futuro del paese», ripete da tempo Usb per bocca dei suoi rappresentanti, e preannuncia una manifestazione nazionale a Taranto. «Dall’odierna assemblea dei soci non ci aspettiamo nulla di buono, anzi tutto il male possibile – dichiarano Francesco Rizzo e Sasha Colautti -, il Governo Meloni si subordina alla multinazionale e, di fatto, sarà l’assemblea dei soci a decidere del futuro industriale di questo paese. È inaccettabile, anche perché nulla è dato sapere del memorandum sottoscritto dal ministro Fitto: non si conosce nulla di un eventuale piano industriale. Va sottolineato ancora una volta che questa è una vicenda nazionale: Taranto, Genova, tutti gli stabilimenti coinvolti. Il Governo sta decidendo di svendere il futuro del Paese, lo stanno spegnendo volontariamente».