Titolo originale: The Goals of Hamas’ Terrorist Attack on Israel from Gaza; Special Report: Operation Swords of Iron; autore: professor Ely Karmon; pubblicato il 15 ottobre 2023 – Nei primi mesi del 2021 Mahmoud Abbas (Abu Mazen), capo dell’Autorità palestinese, promise di indire le elezioni per il successivo mese di maggio. Era dal 2006 che non se ne tenevano, né in Cisgiordania né nella striscia di Gaza.
CONGELATO IL PROCESSO DEMOCRATICO
Tuttavia, alla fine di aprile egli cambiò idea e decise di disdire la consultazione elettorale tanto attesa giustificando la sua scelta con il pretesto che Israele gli avrebbe impedito di far svolgere elezioni a Gerusalemme Est. A questo punto, Hamas rifiutò di rinviarle ad altra data futura, accusando Abbas di volerle sospendere, non a causa di Gerusalemme, bensì per la critica situazione interna al Fatah, che si sarebbe presentato alle urne diviso in tre diverse liste. Inoltre, Hamas sottolineò il fatto che Abbas era stato indotto alla sospensione del pronunciamento dell’elettorato palestinese dopo aver ricevuto gli avvertimenti degli israeliani, che prevedevano una vittoria di Hamas in Cisgiordania. La leadership del movimento islamista radicale filiazione dei Fratelli musulmani rimase profondamente colpito dalla decisione di Abbas, in quanto era certo che la vittoria in Cisgiordania fosse stata a portata di mano, pertanto decise di fare tutto il possibile per destabilizzare l’Autorità palestinese, questo mentre contestualmente attaccava Israele.
L’INIZIO DELL’ESCALATION
A seguito delle rivolte sul Monte del Tempio del 10 maggio 2021 e un raid della polizia israeliana che ha inseguito i manifestanti palestinesi all’interno della moschea di Al-Aqsa (Gerusalemme, n.d.t.), la leadership di Hamas decise di presentarsi come difensore della moschea e della città santa di Gerusalemme. Lanciò centinaia di razzi sul territorio israeliano colpendo aree densamente popolate, città, paesi e villaggi. Prese di mira la stessa Gerusalemme, capitale dello Stato di Israele, oltreché la vasta area metropolitana di Tel Aviv. Israele rispose con l’operazione militare « Guardian of the Walls» che ebbe una durata di undici giorni e durante la quale contro il territorio dello Stato ebraico le organizzazioni armate palestinesi dalla striscia di Gaza lanciarono 4.360 razzi, questo mentre in Giudea e Samaria (Cisgiordania, n.d.t.), oltreché a Gerusalemme si verificarono crescenti disordini tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane. In quel periodo vennero compiuti dieci attacchi terroristici, la maggior parte dei quali con armi da fuoco. Un aspetto particolarmente significativo fu quello delle violenze di piazza divampate nelle città israeliane con popolazioni miste ebraiche e arabe durante l’operazione Guardian of the Walls. Tre cittadini israeliani furono uccisi e centinaia feriti, mentre ingenti danni vennero arrecati alle proprietà dei civili in più di cinquecento luoghi. Dal punto di vista di Hamas si trattò di un notevole successo, poiché si rafforzava il suo sostegno da parte dei palestinesi.
ALIMENTARE LA SPIRALE DI VIOLENZA
Dal maggio 2021 in Cisgiordania si è assistito a un incremento delle violenze e degli attacchi terroristici palestinesi, una spirale proseguita negli anni successivi, che ha portato il bilancio delle vittime a trentacinque, cioè al maggior numero di attentati mai più registrato dalla fine della Seconda Intifada nel 2005. Militari e civili israeliani sono stati aggrediti per la strada con coltelli oppure investiti con autoveicoli, inoltre attacchi contro i passanti sono stati effettuati anche con armi da fuoco automatiche. Dalle città di Jenin e Nablus, in Cisgiordania, si sono attivate piccole cellule terroristiche e gruppi di maggiori dimensioni e si è dunque assistito a una sorta di nuova intifada. Il fattore scatenante di questa più recente recrudescenza va rinvenuto nel tentativo di Hamas di alimentare la spirale terroristica allo scopo di innescare una rivolta di più ampie dimensioni in Cisgiordania. Significativamente, Mohammed Deif, leader dell’ala militare, ha annunciato l’operazione “Al-Aqsa Flood” del 7 ottobre mediante un comunicato registrato su un nastro audio trasmesso dall’emittente televisiva della propria organizzazione islamista radicale, lanciando poi migliaia di razzi e motivando l’attacco nei termini di «una vendetta per i raid israeliani nella moschea Al-Aqsa di Gerusalemme».
AL-AQSA FLOOD
Appena una settimana dopo l’inizio dell’operazione, Hamas ha lanciato sulla sua pagina Telegram un appello ai palestinesi residenti in Cisgiordania affinché istituissero «comitati di difesa popolare in tutti i punti focali della regione al fine di respingere gli attacchi israeliani» che «minacciano di aggravare la situazione e colpiscono case e proprietà». Il movimento sottolineava inoltre che era «dovere di tutti i palestinesi di alzarsi e difendere le proprie case, prendendo parte attiva alla battaglia». Si trattava dell’operazione al-Aqsa Flood. Ora (questa analisi risale al 15 ottobre scorso, n.d.t.), al momento non è stata registrata una risposta massiccia a questo appello da parte della popolazione palestinese della Cisgiordania, come invece auspicava Hamas. Una conseguenza, però, è stata quella dell’interruzione del processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita, che era stato avviato dopo la formazione del governo presieduto dal primo ministro Benjamin Netanyahu (dicembre 2022), un negoziato dapprima condotto in segreto, quindi in un rapido susseguirsi di eventi. Era evidente come dietro questo processo ci fosse l’amministrazione Biden, fortemente interessata a un suo esito positivo sia per ragioni di politica interna (si avvicina la data delle elezioni presidenziali negli Usa) che nel contesto del più vasto piano presentato a margine del vertice del G20 del settembre 2022, quello che, attraverso il coinvolgimento dell’India, mira alla realizzazione del cosiddetto Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC).
SALTA TUTTO (PER IL MOMENTO) CON I SAUDITI
L’IMEC si articolerà in due corridoi separati: quello orientale, che collegherà l’India al Golfo Persico e quello settentrionale, che collegherà il Golfo Persico all’Europa; esso includerà una ferrovia che, una volta realizzata, sarà parte di un sistema di transiti transfrontalieri nave-ferrovia affidabile ed economicamente vantaggioso, in grado di integrare le rotte di trasporto marittimo e stradale attualmente esistenti, consentendo a beni e servizi di transitare da e verso l’India, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, la Giordania, Israele e l’Europa. Il progetto è stato concepito principalmente quale strumento diplomatico degli Stati Uniti d’America per contrastare l’influenza della Cina Popolare in Medio Oriente e, in effetti, l’IMEC andrebbe considerato alla stessa stregua della Belt and Road Initiative (BRI) di Xi Jinping, come un ambizioso strumento di politica estera. Al riguardo, va ricordato che nel marzo del 2022 Pechino ha mediato l’accordo di riconciliazione che ha consentito a Riyadh e Teheran di riallacciare delle relazioni diplomatiche dopo sette anni di rapporti molto tesi. Nonostante ciò, i sauditi hanno chiesto però agli americani di stipulare con loro un trattato di mutua difesa, se non addirittura di concedergli lo status di alleato non membro della NATO. Non solo, con riguardo al nucleare, Riyadh sarebbe intenzionata a costruire diciassette reattori nucleari civili quale parte della sua diversificazione energetica nel quadro della Vision 2030. Tuttavia, il punto critico è l’insistenza saudita sul futuro arricchimento interno dell’uranio, un’opzione che genererebbe grosse incertezze in Iran.
SE RIYADH E GERUSALEMME NORMALIZZASSERO LE RELAZIONI
Sul piano delle relazioni israelo-saudite, se entrambi gli Stati cercano una normalizzazione, sembrerebbe però essere poco chiaro ciò che il governo di estrema destra al potere a Gerusalemme potrebbe essere in grado di offrire all’interlocutore riguardo alla questione palestinese, posto che l’Arabia Saudita è un attore centrale sia nel mondo arabo che in quello islamico, nonché custode di due fondamentali luoghi santi per l’Islam. Qualora il processo di normalizzazione dovesse concretizzarsi i palestinesi non ricaverebbero alcuna garanzia ai fini dell’ottenimento del riconoscimento del loro diritto a uno Stato indipendente. Hamas, che in Arabia Saudita è fuorilegge in quanto organizzazione dei Fratelli musulmani, andrebbe incontro a conseguenze disastrose, questo proprio nel momento in cui il recente miglioramento delle relazioni con il Regno degli al-Saud avrebbe potuto portare alla liberazione dei suoi membri anziani condannati a lunghe pene detentive con l’accusa di riciclaggio di denaro e di avere fornito sostegno all’ala militare della loro organizzazione.
SABOTATORI NEANCHE TROPPO NELL’OMBRA
Ma qualora l’Arabia Saudita ricevesse un ombrello difensivo strategico dagli Stati Uniti d’America, quello che ci rimetterebbe di più sarebbe l’Iran, che vedrebbe il suo vicino e antagonista sunnita sviluppare un programma nucleare e allearsi con Israele, suo nemico regionale. Israele, che per Riyadh sarebbe inoltre un valido partner commerciale, tecnologico e perché no, anche militare. Non sorprende dunque che il leader supremo della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, il 3 ottobre, cioè quattro giorni prima dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, abbia criticato ammonendoli duramente i paesi che cercavano di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico: «La posizione della Repubblica Islamica è che i paesi che scommettono sulla normalizzazione con Israele perderanno (…) stanno scommettendo su un cavallo perdente», queste erano state le sue parole. È interessante notare come questa sia la seconda volta che Hamas saboti un’iniziativa saudita, dopo la cosiddetta Iniziativa araba di pace, proposta in dieci punti per porre fine al conflitto arabo-israeliano che venne approvata dalla Lega Araba il 29 marzo 2002 al vertice di Beirut.
LA STRAGE AL PARK HOTEL DI NETANYA
Quella stessa notte, infatti, alla vigilia della Pasqua ebraica e al culmine della Seconda Intifada, un terrorista suicida di Hamas assassinò trenta israeliani nell’attentato al Park Hotel di Netanya. Hamas rivendicò l’azione, e il suo leader, Sheikh Ahmed Yassin, dichiarò che l’attacco era «un messaggio inviato al vertice arabo» per confermare che il popolo palestinese avrebbe continuato a lottare per la terra e a difendersi, qualunque fossero state le misure adottate dal nemico. In seguito Siria e Libano contribuirono al cambiamento della versione originale della proposta saudita, insistendo nel lasciare che i palestinesi proseguissero la resistenza armata e opponendosi al ricorso al termine «normalizzazione» nel documento, poiché assertvi del fatto che qualsiasi offerta del genere sarebbe stata troppo generosa nei confronti di Israele. L’attacco al Park Hotel fu il casus belli che dette avvio all’operazione militare israeliana «Scudo difensivo», nel corso della quale le Forze di difesa dello Stato ebraico rioccuparono la Cisgiordania e, negli anni successivi, operarono per smantellare le reti di attentatori suicidi e quindi, nel 2005, porre fine alla Seconda Intifada. In sostanza, un deja-vu dell’attuale situazione nel lungo conflitto tra Israele e Hamas.
SOLTANTO UNA TEMPORANEA BATTUTA D’ARRESTO
Per il momento sembra che l’asse tra Hamas e l’Iran stia vincendo la sua scommessa, dato che tra le conseguenza della guerra dichiarata da Israele ad Hamas nella striscia di Gaza c’è l’annuncio della sospensione da parte saudita dei colloqui sulla (potenziale) normalizzazione delle relazioni con lo Stato di Israele. È auspicabile che si tratti soltanto di una temporanea battuta di arresto del processo, di un ritardo negli sforzi profusi allo scopo di espandere ulteriormente a un attore importante gli Accordi di Abramo, coinvolgendo appunto l’Arabia Saudita e, possibilmente, l’Autorità palestinese nel processo di avanzamento della pace nella regione, seppure lentamente e dolorosamente.