a cura di Giuseppe Morabito, generale in ausiliaria dell’Esercito italiano attualmente membro del Direttorio NATO Defence College Foundation – La cooperazione regionale tra i paesi dei Balcani occidentali (Macedonia del Nord, Albania, Serbia e Montenegro) appare fondamentale per il loro processo di pace e integrazione europea. Tale cooperazione svolge un ruolo centrale nella stabilità regionale, nei rapporti reciproci e nel loro basilare percorso verso l’integrazione europea.
BALCANI E CONFLITTI IN UCRAINA E ISRAELE
Le crisi in atto in Israele e Ucraina mettono in risalto quanto sia centrale per i paesi dei Balcani trovare una comune strada europea. Essere europei significa impegno per la pace, la solidarietà e la democrazia. L’integrazione europea è tornata all’ordine del giorno dopo anni di stagnazione e ha sottolineato che non si tratta semplicemente di una questione di geopolitica ma dell’essenza di un’Europa unita. Logicamente a strada è lunga, ma il futuro dei Balcani occidentali è nell’Unione Europea e si devono aprire quelle strade per ottenere rapidamente risultati visibili nell’integrazione, perché le popolazioni dei Balcani occidentali hanno bisogno di vedere che ci sono progressi e devono vedere che il cambiamento è possibile, anche se va riconosciuto un calo di fiducia sia nell’Unione europea sia nella politica nazionale e per questo è assolutamente necessario mantenere le promesse e di garantire che i leader politici nei Balcani occidentali facciano lo stesso. I giovani e la società civile dovranno guidare il cambiamento ed è necessario il sostegno alla promozione dello stato di diritto nei paesi dei Balcani occidentali.
LA PERDURANTE CRISI IN COSSOVO
Risulta palese come la principale crisi dei Balcani occidentali, oltreché principale ostacolo a una futura integrazione europea, risieda nella crisi del Kosovo e i suoi sviluppi. Sulla scia dei pesanti scontri tra la Kosovo Police e i serbo-kosovari verificatisi il 24 settembre scorso, seguiti da movimenti delle truppe di Belgrado e della NATO, il dialogo tra Cossovo e Serbia, mediato dall’Unione europea e sostenuto dagli Stati Uniti d’America, è a un punto morto. Quando la NATO intervenne nel 1999 per fermare le azioni serbe contro gli albanesi dell’Uçk in Kosovo, arrestò un conflitto ma risolse ben poco, poiché da allora i politici etnonazionalisti su entrambi i lati del confine hanno vinto le elezioni attraverso campagne demagogiche nelle quali a Pristina promettevano di affermare il pieno controllo su tutto il Kosovo e a Belgrado di ritagliarsi un’enclave etnica serba in Kosovo dove poter ignorare le leggi del paese. Per più di vent’anni, la presenza della KFOR e gli incentivi allo sviluppo per entrambe le parti hanno ampiamente impedito che questo conflitto si estendesse nuovamente alla regione.
UN RICONOSCIMENTO «DE FACTO»
Ovviamente, il conflitto divampato in Ucraina a causa dell’aggressione russa ha mutato la percezione dell’influenza di Mosca nei Balcani e, più recentemente, l’effettiva espulsione (pulizia etnica) degli armeni dal Nagorno-Karabakh da parte degli azeri appoggiati dalla Turchia di Erdoğan, potrebbe significare che il traballante equilibrio si stia rapidamente erodendo e che lo status quo frutto della deterrenza della KFOR e dell’incentivo dell’adesione all’Unione europea non regga più. All’inizio dell’anno il tentativo mediato da Bruxelles e sostenuto dagli Usa di negoziare una pace globale tra Belgrado e Pristina pareva segnare progressi. A febbraio il presidente serbo Aleksandar Vučić e il primo ministro kosovaro Albin Kurti avevano raggiunto un accordo che prevedeva, tra l’altro, un autogoverno limitato per i serbi del Kosovo attraverso un’associazione dei comuni serbi (ASM), soluzione concordata per la prima volta, ma soltanto in linea di principio, già nel 2013, a fronte del riconoscimento reciproco dei simboli nazionali, dei documenti di identità e dell’integrità territoriale, cioè quello che Kurti definiva come il «riconoscimento de facto del Kosovo» da parte della Serbia.
ESCALATION DELLA TENSIONE
Nessuno si aspettava che l’implementazione fosse facile: Vučić è volato a Belgrado e ha immediatamente sconfessato l’accordo in pubblico a fini di politica interna, mentre Kurti, al pari della maggior parte della comunità albanese del Kosovo, si confermava profondamente scettico nei confronti dell’ASM. In ogni caso sono stati convocati dei colloqui successivi vertenti sull’attuazione e il “treno” è stato rimesso sui binari, tuttavia, non c’è voluto molto perché deragliasse. Infatti, nell’aprile i serbi del Kosovo hanno boicottato le elezioni amministrative nei quattro comuni dove il loro gruppo etiìnico è in maggioranza, questo nel tentativo di incrementare la pressione esercitata dall’Occidente su Pristina affinché attuasse l’ASM, con conseguente elezione di sindaci di etnia albanese. Il mese successivo Kurti ha inviato la polizia (nonostante le obiezioni occidentali) a far insediare a forza i sindaci neoeletti. Nei disordini che ne sono seguiti i manifestanti serbi hanno ferito dozzine di caschi blu della KFOR, quindi, domenica 24 settembre, una trentina di loro, armati, hanno attaccato la Kosovo Police nei pressi della città settentrionale di Banjska, uccidendo un ufficiale prima di ritirarsi in un monastero serbo-ortodosso.
ATTACCO AL MONASTERO SERBO
In uno scontro durato un giorno, i poliziotti inviati da Pristina hanno neutralizzato il gruppo armato arrestando poi diversi kosovari di etnia serba, rinvenuto un deposito di armi nascosto all’interno del monastero, così come veicoli che, secondo il ministro degli Interni di Pristina, «potevano venire ricondotti all’esercito serbo». Gli Usa inizialmente hanno risposto con un linguaggio non chiarissimo, difendendo la polizia di Kurti ed esortando entrambe le parti a «astenersi da qualsiasi azione in grado di infiammare ulteriormente le tensioni», quindi a riprendere i negoziati. La risposta di Belgrado è stata quella classica di Vučić: giocare con il sentimento nazionalista dichiarando un giorno di lutto per i combattenti serbi martiri, unitamente agli sforzi per presentarsi all’Occidente come un’influenza moderatrice, promettendo un’indagine sull’accaduto. La Serbia ha quindi schierato unità corazzate al confine con il Cossovo, facendo perdere la pazienza a Washington e ai suoi alleati. Il 29 settembre gli americani definivano quello schieramento «molto destabilizzante», mentre dal canto suo la NATO schierava dapprima un battaglione britannico in rinforzo del del dispositivo KFOR, poi una compagnia dell’esercito rumeno. Contestualmente, Unione europea e Stati Uniti d’America chiedevano alle parti in contrasto di tornare al dialogo.
IL LAMENTO DI VUČIĆ
Dal punto di vista di Belgrado le incrementali sfide di Kurti allo status quo costringono Vučić a dirigere o a consentire ad altri di adottare misure per reagire in nome dell’autonomia serba in Kosovo. Il primo ministro serbo si trova in difficoltà politiche, poiché sta perdendo la salda presa che ha esercitato per anni sul blocco elettorale di destra. La Serbia si è unita alle critiche a livello internazionale sull’invasione russa dell’Ucraina all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aspetto che potrebbe indebolire ulteriormente la base etnonazionalista di Vučić. I serbi che vivono in Kosovo (ma anche in Bosnia e in Montenegro) possono votare alle elezioni che si svolgono in Serbia e questi voti risultano sempre più importanti. Ciò non giustifica in alcun modo l’accumulo illegale di armi da parte dei serbi in Kosovo, però, questo contesto è essenziale per comprendere il problema. Vučić si è ripetutamente lamentato del fatto che la KFOR non mantiene quella che ritiene essere i fini dell’accordo: invece di tenere tutto sotto controllo (egli sostiene), sta aiutando la Kosovo Police a professionalizzarsi, ad acquisire competenze, a dotarsi di attrezzature letali e a trasformarsi in un’organizzazione militare (la politica di Washington in effetti mira al conseguimento di questo scopo).
IL TURCO DI SCENA E L’ORO DI GAZPROM
La presenza del sostegno di sicurezza della KFOR fa sì che Kurti possa essere in grado di effettuare mosse sempre più provocatorie contro l’autonomia serba in Cossovo senza timori che Belgrado possa reagire. Oggi poi, con un comandante di KFOR di nazionalità turca, le perplessità dei serbi sono aumentati, poiché non va dimenticato che Ergoğan ha sempre sostenuto una posizione anti-serba e non è propriamente definibile un politico equilibrato, visti suoi trascorsi e le sue farneticazioni anti-israeliane di questi ultimi giorni. La maggior parte degli elettori etnonazionalisti serbi condivide ancora la visione per cui la Serbia è ovunque ci siano serbi e che è dovere e responsabilità di Belgrado difendere i loro diritti. Sebbene Vučić affermi di respingere questa politica, essa rinviene però molti sostenitori. La capacità della Russia di intervenire a fianco della Serbia in Cossovo è incentrata sul veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre, Gazprom, azienda russa di proprietà statale, fornisce ancora la maggior parte del gas naturale del quale la Serbia ha bisogno, mentre un’altra società russa possiede la più grande rete di stazioni di servizio nel Paese balcanico. È stato l’oro di Gazprom (letteralmente) a dorare la cupola della cattedrale di San Sava, gloriosamente rinnovata, nel centro di Belgrado.
PRISTINA DIPENDE DA WASHINGTON
Tuttavia, né la forte crescita economica della Serbia degli ultimi dieci anni e neppure le sue prospettive economiche per il futuro dipendono da Mosca. Il futuro della Serbia dipende dall’Unione Europea, anche se per ora l’adesione è rinviata. Il potere economico del Cossovo, quindi il valore nelle relazioni commerciali, impallidiscono rispetto a quelli della Serbia. Chi scrive è appena tornato da un viaggio in Albania e Cossovo, dove gli è stato confermato quanto appena indicato e l’assoluta dipendenza cossovara dalle decisioni di Washington. Nessuno a Pristina dimentica il grande impegno dell’amministrazione Clinton e, ancora in queste ore, nelle folkloristiche sfilate di auto che si osservano nelle zone popolate da albanesi in occasione delle celebrazioni dei matrimoni, vengono sventolate assieme le bandiere rosse con l’aquila bicipite nera e quella a stelle e strisce. Se non è questo un indicatore che gli Usa possono ancora decidere molto del futuro in quei luoghi, cosa altro può esserlo?