Silenzio elettorale in Argentina in attesa delle elezioni presidenziali e parte delle legislative e amministrative di domenica prossima, quando 34,4 milioni di cittadini verranno chiamati a esprimere i loro consensi sui cinque candidati che si contendono la successione al presidente uscente Alberto Fernández, ma soltanto tre di loro vengono realisticamente accreditati per un possibile accesso all’eventuale ballottaggio (che avrebbe luogo il 19 novembre), si tratta di Sergio Massa (Unión por la Patria), Patricia Bullrich (Juntos por el Cambio) e Javier Milei (La Libertad Avanza). Gli altri due candidati sono il governatore di Cordoba Juan Schiaretti e la leader della sinistra, Myriam Bregman.
GLI ARGENTINI CHIAMATI ALLE URNE
Per vincere al primo turno sarà necessario ottenere almeno il 45% più uno dei consensi nelle urne, oppure un minimo del 40% ma solo se associato a un vantaggio di dieci punti sul secondo candidato per numero di voti ottenuti. Oltre che per l’elezione alla Presidenza della Repubblica, domani si voterà anche per il rinnovo di 130 seggi della Camera dei Deputati (ramo del Congresso Nazionale della Repubblica Argentina), di 24 (pari a un terzo del totale) di quelli del Senato e di 19 seggi che spettano al Paese latinoamericano al Parlasur. Al rinnovo politico e amministrativo anche la capitale Buenos Aires e la sua provincia (che pesa per il 37% dei voti totali del Paese),nonché le province di Santa Cruz, Entre Ríos e Catamarca.
RIFLESSIONE SU UNA DEMOCRAZIA STABILIZZATA
Il Paese latinoamericano si reca alle urne in una fase particolarmente delicata, caratterizzata da difficoltà di natura economica che si saldano a quelle derivanti dal surriscaldarsi del quadro internazionale. Non solo, gli ultimi tempi si sono caratterizzati per la riemersione con sempre maggiore forza di voci negazioniste, se non addirittura esplicitamente apologetiche del periodo della dittatura militare che oppresse nel sangue e nel terrore l’Argentina dal 1976 al 1983. E, proprio il raggiungimento dell’ultradestra di una propria competitività sul piano elettorale fa sì che si torni a riflettere sull’effettivo compimento del faticoso processo democratico seguito alla caduta della junta golpista.
1983: UN POPOLO IN FESTA
È quanto è stato fatto in occasione del convegno organizzato dalla Fondazione Craxi e dalla Casa Argentina di Roma, Sección Cultural Ambajada Argentina il 19 ottobre scorso, quando, partendo dai ricordi e dalle testimonianze di «un popolo in festa» (questo era il titolo dato all’evento) per il ritorno alla democrazia, è stato ripercorso per intero quel periodo che vide protagonista il primo presidente liberamente eletto, il radicale Raúl Ricardo Alfonsín, che a partire dal 1983 dalla Casa Rosada guidò il Paese nella transizione alla democrazia. Un omaggio a questa importante personalità alla quale, pur certamente non esente da critiche, vanno attribuiti notevoli meriti.
CRAXI E L’AMERICA LATINA
Come accennato, l’evento presso la Casa Argentina ha avuto luogo per iniziativa della Fondazione Craxi, in quanto il leader socialista italiano, che nel 1983 ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, svolse un ruolo importante al fianco di Alfonsín. «Craxi – ha ricordato la figlia Stefania, attualmente parlamentare della Repubblica e Presidente della Commissione Difesa e Affari esteri del Senato -, già dal 1976, quando divenne segretario del Partito socialista italiano e vicepresidente dell’Internazionale socialista presieduta allora da Willy Brandt, concentro il focus delle attività sul Sud America e le sue dinamiche, costituendo in seguito nella sede nazionale del Partito in Via del Corso una Sezione latinoamericana».
UN PASSO INDIETRO
Seguendo lo svolgersi del rapporto tra Craxi e Alfonsín si è cercato di comprendere a fondo il livello di «definitiva stabilizzazione» raggiunto dalla democrazia argentina in questi quaranta anni, il passaggio da una situazione ancora incerta alla solidità. Tuttavia, per comprendere meglio da dove veniva quel paese nel 1983 è utile compiere un passo indietro. Il golpe del 24 marzo del 1976 investe un paese indebolito dagli ultimi anni critici del peronismo del dopo-Juan Domingo Perón. I militari ebbero gioco facile nell’imporre il loro potere, quella volta, a differenza del lungo processo ininterrotto dagli anni Trenta, disposero di un peso politico e di un’autonomia decisionale pressoché assoluta, cementata saldamente all’interno del blocco occidentale.
AQUÍ DIOS SOMOS NOSOTROS
«Aquí dios somos nosotros» è l’emblematico quanto terrificante adagio cui fecero frequentemente ricorso allo scopo di rimarcare la loro sostanziale onnipotenza e impunità nell’imporre all’Argentina il «Processo di riorganizzazione nazionale». Purtroppo non si trattò di un aforisma esagerato, poiché negli otto anni di dittatura la giunta golpista al potere a Buenos Aires avrebbe sostituito la repressione dell’opposizione politica con il suo sistematico sterminio. L’incubo sarebbe cessato soltanto a seguito di un’altra illusione nazionalista, l’operazione psicologica di massa alla quale i golpisti in difficoltà sul piano interno fecero ricorso nel tentativo di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla disastrosa condizione in cui versava il paese.
L’ULTIMA ILLUSIONE DELLA JUNTA: LA GUERRA PER PUERTO ARGENTINO
Il nemico esterno venne rinvenuto nello storico antagonista britannico, il casus belli nella rivendicazione della sovranità sullo sperduto arcipelago delle Falklands Malvinas, territorio britannico che venne attaccato e occupato dalla fanteria di marina dell’Armada, quella medesima Armada che nella sua Escuela de Mecánica in Avenida de Libertador continuava a segregare e torturare gli oppositori al regime. Ma, come aveva insegnato soltanto alcuni anni prima l’esperienza di un altro Stato autoritario, la Grecia dei colonnelli e dei generali, queste guerre portano sovente a fallimenti, pagati in primo luogo dai soldati che vengono mandati a combatterle e poi dai loro vertici militari.
LA PRIMAVERA ALFONSINISTA
Duramente sconfitti dalla task force inviata da Margaret Thatcher, i militari argentini oltreché da Port Stanley si ritirarono gradualmente anche da potere a Buenos Aires, pur mantenendo una forte dose di influenza. Ma il processo democratico era ormai inesorabilmente avviato col rifiorire di movimenti attivi nella società civile. Prese avvio la cosiddetta «Primavera alfonsinista», fase delicata che il presidente radicale intelligentemente concertò con la Chiesa cattolica, con i sindacati e, giocoforza, con i nuovi referenti nelle forze armate. Alfonsín, definito «l’uomo giusto al momento giusto», marcò simbolicamente il suo esordio, infatti, uno dei primi provvedimenti a venire varati dal presidente fu l’istituzione della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, che sarebbe divenuta nota col suo acronimo Conadep.
GUARDARE AL FUTURO
Con Alfonsín prese dunque avvio la ricostruzione del processo democratico, che per definirsi definitivamente stabile dovette necessariamente poggiare su tre indefettibili pilastri: quello della memoria, quello della verità e quello della giustizia. Oggi, a distanza di quarant’anni dai quei giorni di ritrovata libertà, l’Argentina si appresta ad affrontare una cruciale scadenza elettorale e il quesito da porsi è relativo alla sua capacità di rapportarsi al resto del mondo senza limitarsi a una rapporto esclusivo con i Paesi BRICS, bensì di lavorare anche assieme agli altri, Unione europea in primis, al fine di definire una nuova governance globale.
IL CONVEGNO DI ROMA
Al convegno che ha avuto luogo presso la Casa Argentina di Roma giovedì 19 ottobre 2023, organizzato dalla Fondazione Craxi e dalla Sección Cultural Ambajada Argentina sono intervenuti Patricío Pupi (Casa Argentina di Roma), Roberto Carlés (Ambasciatore de República Argentina), Leopoldo Moreau (in collegamento video dall’Argentina) Donato Di Santo (già parlamentare della Repubblica), Margherita Boniver (presidente della Fondazione Bettino Craxi), Angela Sagnella (ricercatrice universitaria), Enrico Landoni (professore associato di Storia contemporanea presso l’Università eCampus), Ettore Rosato (parlamentare della Repubblica) e Stefania Craxi (parlamentare della Repubblica).
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