Nel quadro di Roma Jewelry Week, presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma è stato presentato il saggio storico “Gioielli a Firenze, Archivio Fratelli Peruzzi (1880-1970)”, realizzato dalla ricercatrice Bianca Cappello, volume edito dalla casa editrice Sillabe di Livorno. Nel Museo Etrusco viene conservata la più grande raccolta al mondo di gioielli Castellani, nota famiglia di orafi romani che promosse per prima il gioiello all’italiana, cioè quello stile che in seguito avrebbe ispirato un giovanissimo Giuseppe Peruzzi. Questi, all’età di sedici nel 1880 aprì un proprio laboratorio di argentatura nella sua città, Firenze, un’attività che gli consentì di venire in contatto con i grandi gioiellieri di allora, nella temperie di quella che fu, seppure per pochi anni, tra il 1965 e il 1871, la seconda capitale del Regno d’Italia.
UNA STORIA DI «MANI CHE LAVORANO»
Nel suo saggio la Cappello intende divulgare quella che, attraverso il gioiello all’italiana, è stata la necessità di esprimere una estetica condivisa che, ad avviso dell’autrice, rinviene i suoi incunaboli già prima dell’Unità d’Italia, nel Risorgimento. È dunque parte di quella voglia di trovare un linguaggio identitario, un moto avviato dai Castellani, ripreso – «cavalcato», fu il termine preciso al quale fecero ricorso i membri di quella famiglia di orafi romani – sia in Toscana che dalla Scuola napoletana, che ne rielaborarono degli elementi sui piani tecnico ed estetico.
IL GIOIELLO ITALIANO
«Fino a quel momento – afferma l’autrice del volume -, il gioiello “alla moda”, come si definiva nell’Ottocento, voleva dire un gioiello in voga a Parigi o in Inghilterra, cioè alta gioielleria nella quale protagoniste erano le gemme preziose. Francia e Inghilterra erano allora imperi coloniali in grado di reperire senza alcun problema queste materie prime di estremo lusso, mentre in Italia le pietre importate erano sovente di qualità differente. Tuttavia, i Castellani prima e i Peruzzi dopo, oltre agli altri orafi toscani e campani, seppero trasformare questa carenza materiale in virtù, attingendo alle antiche tecniche della tradizione orafa al fine di esaltare le forme del “bel disegno”, come usava dire all’epoca».
ESALTARE IL «BEL DISEGNO»
Traforo, incisione, cesello e smalto, a questi saperi ricorsero gli artigiani italiani di allora. A Firenze, ad esempio, si ripresa la tradizione dei Castellani e si rielaborò il micromosaico romano, partendo dalla sottilissima arte del lavoro di filigrana che era propria di quella famiglia romana. Ma non solo, si pensi altresì al corallo del mare e ai cammei di Torre del Greco, nel saggio della Cappello si ripercorre tutta questa epopea. Alla fine della lettura si ingenera un interrogativo: esiste uno stile orafo “fiorentino”? «Il rischio di fondo è quello di una narrativa che può essere molto diversa dalla realtà», sottolinea l’autrice.
NARRATIVA E REALTÀ
«Riuscire a documentare oggi la storia del gioiello fiorentino e italiano – ella prosegue – ci aiuta a trattenere e a tramandare l’autentica realtà. Di fatto, esiste un gioiello “che parla fiorentino” comune agli addetti ai lavori».
ascolta di seguito la registrazione audio integrale del dibattito e l’intervista con l’autrice del saggio sull’Archivio Peruzzi (A582A e A582B).