Riyadh il prossimo anno sarebbe disponibile a incrementare la propria produzione di petrolio, ma solo se i prezzi al barile dovessero mantenersi elevati, allo scopo di captare la benevolenza del Congresso degli Stati Uniti d’America in vista di un futura normalizzazione delle relazioni con lo Stato di Israele, un accordo che contemplerebbe aspetti relativi alla mutua difesa, al programma nucleare del Regno saudita e alle forniture di armi di Washington.
SE NE PARLA DA TEMPO: IL NUCLEARE SAUDITA
Un accordo di normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e Riyadh rappresenterebbe una svolta storica in Medio Oriente e per Washington, dove l’amministrazione Biden da mesi è attivamente impegnata in questa mediazione, si tratterebbe di un successo diplomatico conseguito nell’anno della campagna elettorale per le presidenziali. La monarchia saudita, custode dei luoghi sacri dell’Islam, non ha mai riconosciuto Israele e, da tempo, sottolinea che non lo farà in assenza di una giusta risoluzione del conflitto con i palestinesi. Riyadh non ha infatti aderito agli Accordi di Abramo, anch’essi mediati dagli americani, ai quali nel 2020 hanno invece aderito il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e il Marocco, stabilendo formali relazioni formali con lo Stato ebraico. Tra le richieste fatte da Riyadh a Washington figurano la cooperazione a un programma nucleare civile saudita e una serie di concessioni ai palestinesi in guisa da garantire l’accordo di normalizzazione. Biden al Congresso può contare sui rappresentanti democratici, che sostengono in via generale il processo di normalizzazione anche in funzione della promozione della soluzione “a due Stati”, questo seppure esprimano preoccupazioni riguardo agli aspetti relativi al nucleare. L’offerta di incremento della produzione petrolifera in condizioni favorevoli di mercato segna un mutamento di passo da parte di Riyadh, poiché fino allo scorso anno i sauditi avevano respinto la richiesta americana tesa all’abbattimento del tasso d’inflazione, schizzato in alto in un contesto di elevata volatilità dei mercati provocato dall’invasione militare russa dell’Ucraina.
IL MUTAMENTO DI PASSO DI RIYADH
Ancora in ottobre, sauditi, russi e altri importanti produttori del settore Oil&Gas avevano deciso un profondo taglio della produzione al fine di generare un aumento dei prezzi del greggio, una scelta stigmatizzata da Washington poiché favorevole alla Russia sotto embargo, oltreché dannosa per l’economia globale. A giugno Riyadh aveva quindi annunciato un ulteriore taglio della produzione a seguito di un vertice con i principali produttori dell’Opec+, che estraggono il 60% del greggio mondiale, tutti interessati a sostenere i prezzi malgrado i timori di una recessione economica. Il prossimo vertice è in calendario per il prossimo 26 novembre. Alla fine di questa settimana il prezzo al barile del Wti (West Texas Intermediate) è aumentato di 48 centesimi, attestandosi a quota 82,79 dollari, mentre il Brent (standard internazionale) ha registrato un aumento di 51 centesimi, per un prezzo al barile pari a 84,58 dollari. In generale, il greggio americano è arretrato dopo aver superato i 93 dollari al barile negli scorsi giorni, con relativi effetti positivi sul fenomeno inflattivo.
ELEMENTI CRITICI: LA QUESTIONE PALESTINESE
I palestinesi permangono tuttavia l’elemento critico dei negoziati. Biden aveva esercitato pressioni su Gerusalemme affinché facesse concessioni ai palestinesi nel quadro di un possibile futuro accordo, ma Netanyahu non disponeva di eccessivi spazi di manovra, poiché vincolato da una stretta dipendenza dai suoi alleati di governo, l’estrema destra e i religiosi che si oppongono alla costituzione di uno Stato palestinese. Dal canto suo, Ramallah ha rappresentato una serie richieste nel contesto dei colloqui di normalizzazione con Washington e Riyadh. Si tratta del riconoscimento di uno Stato palestinese alle Nazioni Unite, dell’esclusione dell’Olp dall’elenco delle organizzazioni terroristiche del Congresso degli Stati Uniti, il passaggio del controllo del territorio della Cisgiordania dagli israeliani all’Amministrazione palestinese (Anp) e, sempre in Cisgiordania, la demolizione delle colonie illegali. Benny Gantz, leader del partito di opposizione Unità Nazionale, recentemente si era detto disponibile a fornire un sostegno esterno al governo Netanyahu in funzione del raggiungimento di un accordo.
IL CAMMINO SOTTOTRACCIA VERSO RELAZIONI FORMALI
Un altro leader dell’opposizione, l’ex primo ministro Yair Lapid, si è recato in visita a Washington il mese scorso, dove ha avuto una serie di colloqui con funzionari dell’amministrazione Biden e senatori americani, discutendo con loro, tra l’altro, dell’accordo con i Sauditi. Più o meno negli stessi giorni, due ministri del Governo Netanyahu si sono recati ufficialmente in Arabia Saudita (era la prima volta nella storia di una visita di governanti israeliani), mentre un terzo ci si dovrebbe recare allo scopo di partecipare a una conferenza sul clima. Nel mese di settembre nove membri di una delegazione israeliana erano giunti nella petromonarchia del Golfo nelle vesti di osservatori nel corso della riunione del Comitato del patrimonio mondiale Unesco. L’attacco terroristico jihadista compiuto ieri da Hamas sarà in grado di inceppare questo meccanismo relazionale fortemente voluto da Washington e osteggiato e temuto da Teheran?