Fermata Aree Interne: voci e sapori dal Sud è un progetto ideato dall’Associazione italiana coltivatori (AIC) al fine di apportare un contributo pubblico in termini di analisi e proposte sulle aree interne del Mezzogiorno. Il lavoro, svolto assieme a Open Polis, ha condotto all’emersione territori da decenni afflitti da forti criticità, che tuttavia si presentano anche quali luoghi di notevoli ricchezze culturali e ambientali. L’intento dei promotori dell’iniziativa è quello di porsi come vetrina di buone pratiche poste in essere in territori ove insistono antiche antropologie, di iniziative imprenditoriali moderne in grado di connettersi al mondo attraverso ponti di cultura e di tradizioni enogastronomiche.
L’EVENTO ALLA CITTÀ DELL’ALTRA ECONOMIA A TESTACCIO
L’evento ha avuto luogo nella serata dello scorso 12 settembre, quando presso la Città dell’altra economia, all’interno dell’ex mattatoio di Testaccio a Roma, nel corso di un dibattito sul tema delle cosiddette aree interne si sono confrontati il presidente nazionale dell’AIC Giuseppino Santoianni, il direttore editoriale di Openpolis Vincenzo Smaldore, quello dell’Istituto centrale per il patrimonio immateriale del Ministero della Cultura Leandro Ventura, l’autore del libro “Futuro in Arbëria: visioni di donne”, Lorenzo Fortunati, l’attivista culturale arbëreshe Lucia Martino, il fondatore della Fondazione LC5 ed ex capitano della squadra di calcio della rappresentativa nazionale albanese Lorik Cana; a coordinare la discussione è stata la responsabile comunicazione dell’AIC nazionale Geri Ballo.
FERMATA AREE INTERNE: IL DIBATTITO E GLI INTERROGATIVI
La discussione si è dunque focalizzata sulle aree interne italiane, quelle più lontane dai servizi essenziali, zone svantaggiate ma anche potenzialmente ricche in quanto, qualora valorizzate, in grado di svolgere un ruolo importante nel rilancio della cultura e dell’economia del Paese. L’interrogativo (retorico) emerso dagli interventi dei convenuti è stato quindi come rendere concretamente «volano» di crescita, lato sensu, queste aree che attualmente deficitano dal punto di vista infrastrutturale e della programmazione pubblico-privata? La crisi in atto potrebbe profilarsi quale punto di svolta dal quale ripartire? In Italia 3.800 comuni vengono inclusi nelle aree interne, si tratta di 13,4 milioni di cittadini della Repubblica, cioè il 23% della popolazione italiana, dei quali il 67% nelle regioni meridionali. Una cifra certamente non indifferente, che induce a una lettura più attenta di un fenomeno coesistente e parallelo, quello delle grandi città.
CEDONO I MODELLI STRUTTURALI OCCIDENTALI
Infatti, fino a oggi le politiche sono state incentrate prevalentemente su questi giganti, antropizzati a dismisura e, di risulta, divenuti non più inclusivi e accoglienti. Gli interventi, anche in termini di servizi essenziali, hanno riguardato in buona parte i centri urbani di maggiori dimensioni, in particolare i cosiddetti «comuni polo», meno le aree interne. Il cedimento di alcuni modelli strutturali occidentali è inesorabilmente in atto. Si rifletta proprio sui comuni polo, nei quali si registra un incremento graduale dell’anzianità media della popolazione, con l’allontanamento dei residenti dalle grandi città con sempre meno servizi e opportunità. Riguardo alle aree interne, invece, è stato evidenziato come il ciclo di policy perseguito ha dato dei risultati soltanto quando il percorso è stato continuo, aperto e partecipato.
FONDI SPESI BENE, FONDI SPESI MALE E FONDI ADDIRITTURA NON SPESI
In quattordici anni l’Italia ha potuto beneficiare di finanziamenti pari a 200 miliardi di euro, erogati a copertura di spese da effettuare in due conseguenti cicli settennali rispettivamente di 95 e 200 miliardi. Parte di questi fondi non hanno neppure trovato impiego, mentre hanno dato frutti tutte quelle volte che i loro destinatari sono riusciti a fare sistema, cogestendo servizi e condividendo saperi. In questo senso, i temi centrali dell’articolato dibattito (la cui registrazione audio integrale è disponibile di seguito su questa pagina web, A567) sono stati l’agricoltura sostenibile, le tradizioni linguistico-culturali (come quella arbëresh della quale tratteremo in seguito) e il contributo dei giovani che fanno impresa e rivitalizzano i territori dell’entroterra.
FUTURO IN ARBËRIA: VISIONI DI DONNE
Salvaguardare il patrimonio immateriale, poiché esso non è restaurabile se lesionato; si tramanda di padre in figlio; è contemporaneo, in quanto vive e si trasforma quotidianamente: è vivo e in divenire. Al riguardo, un esempio viene fornito dalla cultura arbëresh, cioè quella propria dei paesi dell’Arbëria. Il volume “Futuro in Arbëria: visioni di donne” è una celebrazione di figure femminili arbëreshe, di quella minoranza storico-linguistiche italiana tra le dodici riconosciute sull’intero territorio nazionale a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 482/1999. Il cuore del libro è una raccolta di microstorie di donne, percorsi di ricerca dell’identità e di possibili equilibri fra tradizione e contemporaneità. Si tratta sovente di persone non comuni, ben inserite nelle loro comunità che operano in diversi ambiti, quali turismo sostenibile, agricoltura biologica, arti, ricerca, perseguendo il fine della rivitalizzazione della loro cultura.
UN REPORTAGE FATTO DI MICROSTORIE E IMMAGINI
Microstorie corredate da ritratti fotografici di straordinario interesse, caratterizzati da uno stile glamour che sfida il tono di non pochi reportage sulle minoranze a rischio di sopravvivenza, conferendo la giusta consistenza a figure che non meritano commiserazione, bensì rispetto. Questa Arbëria è un microcosmo in pericolo, esposto a processi di spopolamento come altre aree interne, ma preserva modi alternativi di intendere la convivialità e la vita. Per questo riguarda tutti e può aiutare a plasmare visioni alternative e inclusive di futuro in un’epoca di omogeneizzazione culturale. Autore e fotografo è Lorenzo Fortunati, la pubblicazione è dell’Istituto Centrale per il Patrimonio immateriale (ICPI).
SHOW COOCKING E SAPERI TRAMANDATI
Alla fine del dibattito alla Città dell’altra economia è stato rappresentato uno show cooking sulla preparazione delle “shtridhëlat”, pastasciutta tipica delle comunità arbëreshe italiane, la cui preparazione interamente a mano viene tramandata da generazioni, piatto degustato nella formula tradizionale con i fagioli, accompagnate da olio evo del consorzio APO e peperoncino. Anche i vini erano parte dei saperi tramandati, quelli delle aziende agricole Tenute Ferrari e Cervinago (imprese condotte da famiglie arbëresh della Calabria), una valorizzazione dei vitigni autoctoni del territorio del Parco nazionale del Pollino, prodotti dell’agricoltura sostenibile che unisce la promozione del territorio alla creazione di posti di lavoro.