Non sono certamente pochi i fattori da inserire nel computo per tentare di pervenire alla soluzione di una equazione, se non dell’equilibrio e della stabilità almeno del decremento del livello di tensione, in quel Medio Oriente (o Asia occidentale) infuocato dalle crisi in perenne divenire.
DINAMICHE GLOBALI E LORO EFFETTI A LIVELLO REGIONALE
«I mutamenti della situazione strategica globale hanno inciso ovviamente anche su quella del Medio Oriente – esordisce Karmon -, poiché tutto si lega. Anche la ripresa del conflitto con Hezbollah dopo un lungo periodo di relativa tranquillità si connette con queste dinamiche. Gli Stati Uniti d’America, poco a poco, si sono ritirati dalla regione perché hanno interessi per loro più importanti altrove. Ormai hanno risorse energetiche proprie e devono occuparsi della guerra in Ucraina, oltreché del confronto con la Cina Popolare per Taiwan. Dal canto loro i Paesi del Golfo, Arabia Saudita inclusa, che non ha firmato gli Accordi di Abramo però ne era interessata e li ha sostenuti, hanno compreso che il paradigma strategico americano non è più così forte e sicuro, dunque sono indotti ad accordarsi con l’Iran per non venire attaccati da quest’ultimo».
LA DEBOLEZZA DI ISRAELE
Nello scenario attuale, dunque, Israele evidenzia la sua debolezza, sia sul piano delle relazioni con Washington, che non è interessata a contenere Teheran e anzi cerca un nuovo accordo sul nucleare con lei. «Questo è un grosso problema per Israele – sottolinea il ricercatore e analista della Reichmann University -, che si aggiunge al raffreddamento delle relazioni in campo politico e commerciale che erano state avviate con vivacità dopo gli Accordi di Abramo, questo a causa di questa situazione e anche per via del conflitto, sempre più duro, tra Israele e i Palestinesi, sia quelli della Striscia di Gaza che, principalmente, quelli che l’Autorità palestinese (Anp, presieduta da Mahmoud Abbas/Abu Mazen, n.d.r.) si è dimostrata incapace di controllare in Cisgiordania».
JENIN: LA SPINA NEL FIANCO IN CISGIORDANIA
Richiesto di un parere sulla recente operazione di sicurezza delle Forze di difesa israeliane in Cisgiordania, il professor Karmon ha replicato ritenendola affatto risolutiva del problema terrorismo. «Jenin viene considerata una città molto violenta – ha egli affermato -, noi sappiamo che lì da una ventina d’anni è stata concentrata sia l’attività della Jihad islamica palestinese (PIJ) che quella di Hamas, soprattutto negli ultimi tempi. A questi vanno aggiunti poi anche elementi del Fatah stesso, che dovrebbero mostrare maggiore moderazione e tenere conto della necessità di mantenere un accettabile grado di stabilità, ma che invece risultano spesso coinvolti in atti di terrorismo contro Israele. Tutto questo ha fatto divenire Jenin un punto nevralgico dove l’ultima operazione militare “chirurgica” non ha risolto i problemi».
NETANYAHU RILANCIA E APPROCCIA L’ANP
Al riguardo va rilevato che, immediatamente dopo l’uscita delle Forze di difesa israeliane dalla zona di Jenin il governo presieduto da Benjamin Netanyahu ha rilanciato nei confronti di Ramallah al fine di rinsaldare le relazioni con l’Autorità nazionale palestinese, in particolare nei campi economico e della sicurezza interna. «A distanza di anni, credo che l’ultima volta lo abbia fatto nel 2012, il presidente Mahmoud Abbas si è recato in visita a Jenin e ha esortato le forze di sicurezza palestinesi dell’Anp di cercare di riprendere il controllo della città». Ad avviso di Karmon si tratta di sviluppi che stanno avendo effetti anche sulla politica israeliana. «I due partiti politici dell’estrema destra israeliana, quello di Smotrich e di Ben Gvir, che vorrebbero annettere gradualmente la Cisgiordania, provocano incidenti che sono chiaramente di ostacolo al dialogo, tuttavia, al momento sia il primo ministro che il ministro della Difesa si dicono convinti di proseguire nell’approccio».
SE MI DIMENTICO DEL NEGOZIATO …SI PARALIZZI LA MIA DESTRA
Si tratta di una politica che influisce anche sulle relazioni tra Gerusalemme e Washington, in quanto gli americano non hanno rinunciato alla possibilità della costituzione di due Stati per due popoli, esercitando pressioni su Israele affinché non esasperi le contraddizioni nel campo dell’Autorità nazionale palestinese, dato che a volte le attività di contrasto del terrorismo che comportano la eliminazione fisica di decine di militanti, hanno sì efficacia nel breve termine, però sortiscono effetti negativi nell’opinione pubblica palestinese che possono rivelarsi controproducenti per Israele nel medio-lungo periodo. «Vedremo se questo tentativo di cambio di strategia avrà davvero degli esiti concreti malgrado i ripetuti tentativi di sabotarli posti in essere dai partiti dell’estrema destra».
LA STRATEGIA IRANIANA: ATTACCO A ISRAELE SU QUATTRO FRONTI
Per Israele oggi il problema consiste nella pervicace azione iraniana di costituire quattro fronti di guerra alle sue frontiere ricorrendo a propri alleati locali e proxi, una potente e bene armata massa di manovra da impiegare al momento giusto per annichilire il nemico. «In questo senso mi riferisco alle tensioni con l’Hezbollah libanese – sottolinea l’analista di Herzliya -, che ritiene, Nasrallah in primis, che Israele attualmente attraversi una fase di debolezza, decidendo conseguentemente di compiere azioni provocatorie alla frontiera. Ma questo non si verifica da oggi, bensì da tre anni e senza una concreta risposta dell’esercito israeliano. Se non viene data una risposta a queste crescenti provocazioni Israele si troverà in uno stato di maggiore debolezza nel momento in cui gli iraniani decideranno di scatenare l’attacco sui citati quattro fronti simultaneamente».
POSSIBILI AZIONI PREVENTIVE ISRAELIANE
«La strategia israeliana dovrebbe trovare applicazione attraverso un negoziato con l’Anp al fine di fornire a essa i mezzi necessari per riprendere il controllo di tutto il suo territorio, coordinandone altresì le attività anti-terroristiche. Si tratta di un coordinamento che nel passato è già esistito e che oggi si dovrebbe riattivare. A mio parere Israele dovrebbe essere più deciso e aggressivo nei confronti dei leader di Hamas e della Jihad islamica palestinese che si trovano a Gaza, che stanno destabilizzando con ogni mezzo la Cisgiordania senza pagare alcun prezzo. Infine, si dovrebbe essere più aggressivi anche contro Hezbollah impedendogli di assumere e mantenere il controllo del Libano meridionale alla frontiera con Israele, da dove minacciano l’infiltrazione di miliziani del territorio israeliano e il suo bombardamento con i razzi».
RIVEDERE LE RELAZIONI CON GLI AYATOLLAH? INTANTO «BIBI» VA IN CINA
Alcuni mesi fa un ex direttore del Mossad intervistato in televisione fece cenno a una ipotesi di revisione dell’approccio nelle relazioni con la Repubblica Islamica dell’Iran nel medio periodo, questo in un quadro di mutamento degli scenari e degli equilibri di potenza a livello globale. Ad avviso del professor Karmon non si tratterebbe di una strada percorribile: «Non c’è alcuna possibilità di giungere a questo. Oggi il regime teocratico si sente molto più forte perché è in un’alleanza strategica con la Russia e in una fase di calma con l’Arabia Saudita, regno con il quale ha un discreto volume di scambi commerciali, inoltre ha il sostegno della Cina Popolare. A mio parere, il viaggio del premier Netanyahu a Pechino è necessario. I cinesi stanno tentando una mediazione anche tra palestinesi e Israele, ma è qualcosa di molto più complicata di quella che hanno portato a termine tra Iran e Arabia Saudita. Va poi considerato che un viaggio a Pechino in questo momento va interpretato come un segnale negativo indirizzato all’amministrazione Biden, dunque bisognerà attendere i prossimi mesi».
ascolta di seguito la registrazione integrale dell’audio dell’intervista al professor Ely Karmon (A557)