Risultano giocoforza incrementati i costi relativi all’assicurazione contro il default di Deutsche Bank, i cui titoli azionari ieri hanno perso l’8,5%, dopo avere recuperato dal 15% del picco registrato nella mattinata. In difficoltà anche Commerzbank, la quarta maggiore banca tedesca, una dinamica che ha trascinato giù i listini europei portando i titoli del settore in rosso, inclusi quelli degli istituti italiani Intesa e Unicredit. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz cerca di rassicurare mercati e opinioni pubbliche affermando che si tratta di «una banca molto redditizia, dunque non c’è motivo di preoccuparsi». Dal canto loro, i ministri dell’Unione europea fanno sapere che è in atto un continuo monitoraggio degli istituti bancari. Ma, si è di fronte soltanto a un problema di cattiva comunicazione oppure ci si deve preparare a un effetto domino?
LE PRIME AVVISAGLIE OLTRE ATLANTICO
Le prime avvisaglie di crisi erano giunte da oltre Atlantico con il fallimento della Silicon Valley Bank e la precaria situazione di poco meno di una ventina di altri istituti cosiddetti “regionali”. Poi si è verificata la crisi di Credit Suisse, una banca sì, «troppo grande per non essere salvata», ma al contempo anche «troppo grande per essere salvata» da un bilancio pubblico come quello della Confederazione elvetica. Credit Suisse – istituto in realtà già chiacchierato da qualche anno, tuttavia fino ai giorni scorsi ritenuta dalle autorità finanziarie di Berna «solida e solvibile» – è stato salvato all’ultimo minuto dal fallimento grazie all’intervento di una cordata di investitori tra i quali figura UBS, operazione coordinata dalla banca centrale elvetica e resa possibile dall’intervento delle banche centrali dei maggiori paesi dell’Occidente, che hanno garantito la liquidità necessaria a che essa andasse a buon fine. Il nuovo soggetto che si viene a formare a seguito di questo assorbimento costituisce, tra l’altro, il primo operatore estero di risparmio gestito in Italia.
I TIMORI DI UN EFFETTO DOMINO
Le modalità di salvataggio di Credit Suisse aiutano a comprendere la crisi di Deutsche Bank, poiché i riflessi delle dinamiche della prima hanno determinato effetti sulla seconda. La cancellazione dei bond subordinati (obbligazioni), e non delle azioni, ha fatto sì che coloro i quali avevano prestato denaro alla banca elvetica rimanessero esposti, con conseguenti ripercussioni sull’intero mercato di questi specifici titoli, coinvolgendo anche Deutsche Bank, che di derivati simili in pancia ne detiene un ammontare sproporzionato. La situazione è preoccupante poiché i timori ingenerati nei mercati da crisi del genere alimentano il calo di fiducia riposto da risparmiatori e investitori negli istituti bancari, cioè dell’elemento basilare sul quale si fonda il credito, che viene erogato in virtù dei depositi effettuati dai loro clienti.
PAROLA D’ORDINE: RASSICURARE I MERCATI
Negli Usa l’attenzione di operatori e analisti viene ora concentrata sulle banche di medie dimensioni, che risultano esposte a una notevole volatilità, questo nonostante la Federal Reserve abbia ventilato l’ipotesi di maggiori tutele da offrire ai depositi. Le maggiori probabilità che si verifichino default, strettamente correlate all’incremento dei tassi di interesse, si rinvengono ovviamente sui settori nei quali si registrano maggiori livelli di indebitamento, come quello immobiliare, un rischio comune agli Stati Uniti d’America e ad alcuni Paesi dell’Europa settentrionale e centrale (scandinavi, Olanda e banche regionali tedesche), dove i prezzi delle case sono praticamente raddoppiati. Ieri la parola d’ordine è stata dunque «rassicurare», ma le banche sono davvero adeguatamente capitalizzate e prive di problemi di liquidità così come i leader politici si sforzano di convincere le opinioni pubbliche? E inoltre, le crisi di questi ultimi giorni sono il frutto di una cattiva (e a volte anche artefatta) comunicazione, oppure ci si deve preparare a un effetto domino?
STABILIZZARE LA MONETA CON LE CONSEGUENZE CHE CIÒ COMPORTA?
È evidente, poi, come l’azione delle banche centrali sui tassi di interesse in funzione della riduzione del fenomeno inflattivo (aumento del costo del denaro al fine di stabilizzare la moneta) abbia inciso in maniera determinante sulla stabilità finanziaria, intesa essa in generale come in particolare nei casi di crisi e default delle banche negli ultimi giorni. L’aumento dei tassi di interesse ha infatti comportato un decremento del valore dei titoli detenuti in portafoglio dalle banche, che ha a sua volta scatenato il massivo ritiro dei depositi in esse versati dalla clientela e la forzata alienazione dei titoli prima della loro scadenza per evitare perdite. L’azione sui tassi di interesse da parte delle banche centrali andrebbe dunque rivista nel senso di una maggiore prudenza? Il caso Deutsche Bank ha turbato i mercati in questo ennesimo venerdì nero per la finanza
ABBANDONO DEL TRADIZIONALE MODELLO DI EQUILIBRIO
La Deutsche bank, protagonista in negativo della giornata finanziaria di ieri, non è nuova a vacillamenti critici, infatti, dal momento in cui abbandono il proprio modello tradizionale che aveva garantito all’istituto tedesco un solido equilibrio. A cavallo della fine del millennio le operazioni di natura “globale” su derivati, obbligazioni e titoli azionari che la vide impegnata comportarono investimenti a elevato rischio seppure ad alti rendimenti, poi venne la crisi finanziaria del 2008. Negli anni seguenti, il crollo dei tassi di interessi (addirittura negativi quelli applicati ai conti correnti) determinarono una caduta di redditività per le banche tedesche, in particolare per quelle commerciali, e i depositi (in aumento) divennero per loro fonte di stress nel conseguimento di guadagni.
CRITICITÀ: GLI ATTIVI DI LIVELLO 3
Deutsche Bank si orientò quindi verso gli investimenti in prodotti finanziari più redditizi ma a elevato rischio, asset illiquidi ritenuti opachi che in bilancio vennero classificati alla voce “attivi di livello 3”. Il rischio risiedeva principalmente nel fatto che, essendo privi di un chiaro mercato di riferimento e oggetto di valutazioni opinabili, si connotavano per la difficoltà nella loro cessione e, di risulta, rischiavano di restare in pancia a chi li deteneva in portafoglio. Nel 2017 gli asset di livello 3 in pancia a Deutsche Bank venivano stimati in 22 miliardi di euro, il maggiore ammontare allora registrato nelle maggiori banche europee, una cifra pari al 45% di quello che in quel momento era il patrimonio principale dell’istituto di Francoforte sul Meno, una cifra che avrebbe raggiunto i 25 miliardi di euro nel 2019.