UCRAINA, reportage. Diario di un paese in guerra: come la Chiesa aiuta la gente a restare malgrado tutto

L’emergenza è sempre elevata, ma la gente ormai si è abituata ai disagi e ai drammi della guerra. Il reportage di Andrea Gagliarducci, vaticanista di ACI Stampa

da Kiev Andrea Gagliarducci, vaticanista di ACI Stampa –La cattedrale greco cattolica della Resurrezione a Kyiv è stata per mesi un rifugio per oltre duecento persone, che si sono ritrovate nei sotterranei a ripararsi dagli attacchi aerei. In quei giorni, anche l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk girava con un giubbotto anti-proiettile e un elmetto, cercando di portare conforto alla popolazione. Ora che Kyiv è più tranquilla, il complesso dell’arcivescovado maggiore sta invece lavorando per costruire una cucina, che potrà essere utilizzata da cento persone alla volta. Con la speranza che questo convinca la gente a restare.

ABITUDINE ALLA GUERRA

Ormai, la gente si è abituata la guerra, ed è inevitabile. «Abbiamo imparato a riconoscere i rumori», dice Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, in una conversazione con i giornalisti arrivati a Kyiv grazie ad una spedizione organizzata dalle ambasciate polacca e ucraina presso la Santa Sede. Riconoscere i rumori significa che, quando si comprende che ci sono solo due o tre missili lanciati, non ci si dà più la pena nemmeno di scendere dai palazzi, ma si aspetta che tutto finisca. I problemi sono altri. La capitale ha elettricità nel 75% del proprio territorio, anche se a volte ci sono blackout improvvisi, mentre in altre zone non sono così fortunati. Tutto sommato, la notte le città come Kharkiv, più vicine al confine, hanno il coprifuoco e tengono tutte le luci spente.

IL RIGIDO INVERNO

Questa carenza di energia si rispecchia sulla vita quotidiana. In un posto che può arrivare a meno venti gradi di temperatura, non avere l’elettricità significa non avere il riscaldamento. Ma non solo: non c’è l’energia per il forno, a volte nemmeno per la cucina. Vivere diventa molto complicato. E così, è cominciata, in maniera blanda, quasi invisibile, la terza ondata migratoria, quella che Shevchuk definisce «i migranti termici». Non si tratta più solo di persone povere e marginalizzate, che non hanno altra scelta che fuggire. Per esempio, nel treno che da Kyiv mi riportava a Przemysl, ho incontrato tre giovani donne che andavano a passare l’inverno a Praga, dove avevano da chi appoggiarsi, chiudendo dietro le spalle una casa che non si sa se avrebbero ritrovata uguale o avrebbero ritrovato del tutto; una donna che andava a trovare la figlia che si era stabilita sulla Costa Azzurra per studiare, valutando se raggiungerla definitivamente; una giovane che partiva per una vacanza in Spagna.

«SMETTETE DI UCCIDERCI»

Sono persone che hanno mezzi economici, persino un lavoro, ma che preferiscono andare via, anche per poco tempo. Perché l’idea, per tutti, è di tornare. Cosa fare, però, nel frattempo che la città è svuotata? Da qui, l’iniziativa della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, che serve a dare una possibilità a tutti di cucinare, e così a trovare un motivo di meno per non andarsene. La guerra, in fondo, si vince anche così, con la presenza costante in un posto da cui si viene invitati ad andare via. Ma non è solo quello: la popolazione si è organizzata per aggiustare subito quello che viene distrutto, per non dare l’idea di piegarsi a nessuna provocazione nemica. Sempre secondo Shevchuk «la pace vuol dire anzitutto assenza di guerra, che per noi vuol dire vincere e fare andare via il nemico. La pace nella nostra immaginazione vuol dire arrestare queste azioni militari. Smettete di ucciderci, questo sarà il primo passo per una pace autentica. Ma sappiamo che la pace è qualcosa di più profondo dell’assenza della guerra. Non si tratta solo di vincere nella guerra, ma vincere lo stesso spirito della guerra, la guerra nelle sue cause, la fonte della pace autentica e duratura».

LA CHIESA GRECO-CATTOLICA UCRAINA

C’è bisogno, intanto, di dare sostegno alla gente e in molti casi a farlo c’è rimasta solo la Chiesa. Il capo di quella Greco cattolica ucraina nota che dalla città martire Izium, ma anche da Kupiansk arrivano a Kharkiv persone in cerca di alloggio. Ricevono dal governo 2-3.000 grivnie (la moneta ucraina), ma non bastano nemmeno a pagare le cose più urgenti. E Kherson, appena liberata, è «un punto molto doloroso, dove vengono portati continuamente i nostri aiuti.  Due i modi in cui la Chiesa si rende prossima: attraverso la Caritas e attraverso le parrocchie, che creano centri, case famiglie, varie iniziative. E poi c’è una fondazione patriarcale, gestita dalla Curia dell’arcivescovado maggiore, che cerca di investire i fondi comprando gli aiuti alimentari necessari, fornendo pacchi per sfamare una famiglia durante una settimana e così non dipendiamo da questo arrivo spontaneo degli aiuti umanitari e cerchiamo in modo stabile di procurare questo cibo. Diciamo che è un po’ un’ambulanza del patriarca».

ONDATE DI PROFUGHI

Il tutto per fronteggiare un’emergenza che non ha niente di simile, mentre un terzo della popolazione ucraina si è già mosso. «Abbiamo registrato cinque ondate di sfollati interni e non tutti hanno portato gente fuori dall’Ucraina – riferisce Shevchuk -, all’inizio cercavano di rimanere in salvo quelli che avevano i mezzi economici; la seconda ondata erano quelli di classe media, persone che avevano mezzi proprio, auto e potevano pagare qualche hotel. La terza ondata era gente senza niente, che fuggiva a mani vuote dalle loro case. Quindi, la quarta ondata erano quelli che fuggivano per ultimi e non volevano andare troppo lontani dalle loro città. Infine la quinta ondata, quella dei profughi termici che fuggono non tanto della guerra quanto dal freddo, che stanno affollando l’Ucraina centro-orientale».

LE ATROCITÀ PERPETRATE DAI RUSSI

Il sindaco di Kyiv invita a lasciare la città, ma è proprio questo che si cerca di evitare. «D’altronde – spiega Sua Beatitudine –, la città ha passato tante tappe di sopravvivenza. C’era la situazione disperata di quando i russi sono arrivati, quando i ponti erano chiusi, si era a quindici chilometri dalla linea dei combattimenti. Erano le prime settimane e anche su queste isole sul fiume Dnipro c’era no sistemi di difesa antiaerea, potevamo vedere fuochi di artificio dalla nostra finestra ed era pericoloso. Ma poi ci siamo abituati, perché non è che ad ogni allarme anti-aereo tutti fuggono nel rifugio, la gente non ci fa più caso». Dopo che i russi se ne sono andati sono state scoperte le atrocità che avevano perpetrato a Bucha, una località situata a venticinque chilometri dalla capitale.

IL CONFORTO DELLA PAROLA

Così, l’arma più forte rimane la resilienza: gli ucraini tornano a casa, non scappano per sempre e, quando sono in zona, riparano tutto. Sua Beatitudine racconta anche della nascita del videomessaggio quotidiano, che era più un modo per attestare la sua sopravvivenza nel mezzo della guerra, che poi è diventato una necessità per le persone. «Dopo tre settimane, mi chiedevo se valesse la pena continuare, poi sono andato a Zytomir, che era anche martirizzata ogni giorni ed era un sabato che ventuno missili sono caduti sulla città. Lì una vecchietta mi ha detto: “Beatitudine, siamo terrorizzati dalla paura è bene che ci parli. Non importa cosa dica, importa che ci parli”. Mi ricordai di una situazione vissuta da medico, perché avevo lavorato in un reparto di terapia intensiva, dove vidi un moribondo dire alla moglie: “Parlami!” E lei si mise a leggere, anche se lui non la poteva seguire. Non dobbiamo sempre portare messaggi superintellettuali, poiché è importante accompagnare questa gente; non possiamo cambiare le circostanze, ma possiamo cambiare il nostro modo di vivere a modo cristiano».

NON C’È PACE SENZA GIUSTIZIA

«Sarà un Natale difficile, ma mai come l’ultima Pasqua», racconta Sua Beatitudine, «quando noi abbiamo l’usanza di cantare i canti natalizi, che sono parte del nostro modo di vivere Natale che si cantano visitando i vicini e quelli che sono più bisognosi per portare e condividere la gioia e fare buoni auguri. Io ricordo anche di quando questi canti natalizi erano forma di protesta contro il regime ateo: la gente cantava perché così vincevano violenze, perché i canti cantano l’evento della nascita di Gesù Cristo». Egli quindi aggiunge: «Io so che molti si preparano per andare al fronte e cantare questi canti natalizi con i nostri soldati, facendo una rappresentazione semi-teatrale dell’evento applicata alla nostra situazione esistenziale». La speranza è ovviamente la pace, che però non può esserci senza giustizia. «Noi – conclude Shevchuk – siamo costretti a lottare per la nostra sopravvivenza e per noi la pace significa sanare le ferite della nostra gente, poiché tutti noi siamo feriti».

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