A seguito di una nottata di intensa discussione, all’alba dello scorso 7 giugno a Bruxelles la Presidenza del Consiglio europeo e i negoziatori del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo di massima sul cosiddetto «salario minimo», un risultato successivamente annunciato con enfasi. Si tratta di una intesa provvisoria sul progetto di direttiva che dovrebbe divenire legge e, una volta definitivamente in vigore, promuovere l’adeguatezza dei salari minimi legali, contribuendo così – almeno negli auspici dei suoi promotori – a porre le basi per condizioni di lavoro e di vita dignitose per i lavoratori dipendenti in Europa.
UNA RACCOMANDAZIONE AFFATTO COGENTE
In effetti, Bruxelles non ha stabilito una soglia minima salariale europea al di sotto della quale non sarà possibile scendere nelle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Il salario minimo è attualmente adottato in numerosi paesi europei, ma con marcate differenze nella base salariale da paese a paese, in conseguenza delle più basse retribuzioni in alcuni di essi. Condizioni notevolmente diverse quindi, che renderanno conseguentemente diverso il grado di applicazione della direttiva, poiché l’Unione europea non potrà indicare una misura mediana standard applicabile da tutti e ventisette i suoi membri. Essa andrebbe dunque considerata come una «raccomandazione» che, allo stato delle cose, non impone obblighi. Insomma, se il principio informatore di questa attesa direttiva è quello di rendere la povertà lavorativa un fenomeno del passato, vanno tuttavia rilevate le eccezioni sollevate dai suoi detrattori o, comunque, da quegli economisti che non vi rinvengono poteri salvifici.
CONTRATTAZIONE NAZIONALE E LAVORO NERO
Un tema che in Italia si pone al centro del dibattito politico e che, almeno per alcuni, è qualcosa che ha a oggetto un «tema demagogico che non risolve il problema di fondo», poiché, «si è aperto un dibattito che non ha a oggetto le cause di esso». Nella schiera degli scettici figura anche il professor Mario Baldassarri, già viceministro dell’Economia e attualmente presidente del Centro studi economia reale, intervenuto come di consueto alla trasmissione di approfondimento “Capire per conoscere”, condotta dal giornalista Claudio Landi e andata in onda sulle frequenze di Radio Radicale il 6 giugno scorso. «Il tema non è il salario minimo in quanto tale – ha eccepito Baldassarri -, ma quello che tutti coloro i quali sono coperti da contratti di lavoro collettivi nazionali percepiscono ben oltre il salario minimo, cosa che invece non si verifica nei casi di tutti i lavoratori in nero sfruttati poiché retribuiti con due o tre euro all’ora».
ESTENDERE «ERGA OMNES» I CONTRATTI COLLETTIVI
«È ovvio che una legge del genere non affronta il problema – ha egli argomentato -, dato che permane quello del lavoro nero e dei contratti cosiddetti pirata». Secondo l’economista ospite della trasmissione, «a questo punto basterebbe dare valore erga omnes ai contratti collettivi nazionali, che interessano milioni di lavoratori e centinaia di migliaia di imprese», una estensione a tappeto che, però, potrebbe avere luogo soltanto in forza di una norma di legge che la preveda. «Questo, però – rimarca Baldassarri -, non nei termini di salario minimo, poiché altrimenti si scasserebbero i contratti collettivi stessi» Riguardo alla piaga del lavoro nero, il presidente del Centro studi economia reale ha poi affermato che «il fenomeno si contrasta in primo luogo attraverso l’offerta di un “lavoro bianco”, infatti, se il mercato fosse in grado di fare questo le condizioni migliorerebbero per tutti, in secondo luogo, un altro strumento di contrasto è quello dei controlli severissimi».
QUESTIONE SALARIALE E INCUBO INFLAZIONE
In ogni caso l’Italia è un paese afflitto da decenni dalla questione salariale, con il prodotto interno lordo pro capite immobile ai livelli registrati nell’anno 2000 e i salari (in termini di potere d’acquisto) al 1995. «Tutto è purtroppo effetto della produttività, che in questo paese è ferma da vent’anni – afferma Baldassarri -, questo è il vero tema, che adesso si salda con l’altro, contingente, dell’inflazione salita al 7%; se i salari attuali attraverso i rinnovi contrattuali venissero adeguati al tasso d’inflazione si riavvierebbe una spirale perversa salari-prezzi che porterebbe l’inflazione oltre il 10%, ma allora come ridare potere d’acquisto ai salari senza al contempo gravare sulle imprese col costo del lavoro?» Oggi un lavoratore a tempo indeterminato costa all’impresa dalla quale dipende circa due terzi in più di quello che percepisce in busta paga, «è il noto cuneo fiscale contributivo, un macigno che l’Italia si trascina dietro da decenni e sul quale mai come ora sarebbe importante intervenire per ridurlo».
RIDURRE IL CUNEO FISCALE CONTRIBUTIVO
Tuttavia, una riduzione del cuneo fiscale contributivo si rifletterebbe sul bilancio pubblico nelle forme di un aggravio, «950 miliardi di euro – conclude Baldassarri –all’interno dei quali si annidano voci di spesa che però sono sprechi, spese clientelari e corruzione. Soldi che andrebbero recuperati, assieme ai 120 miliardi di evasione fiscale, ingenti risorse che consentirebbero un intervento strutturale serio sul cuneo fiscale contributivo».
Nel corso della trasmissione, la cui registrazione audio integrale è fruibile di seguito su questo sito web (A451) è stato trattato anche il tema relativo ai dati sulla crescita economica recentemente diffusi dall’Istat, con le variazioni delle cifre fornite nelle ultime otto settimane dallo stesso istituto di statistica dal -05% al +01%, aspetto commentato in studio.