ITALIA, Festa della Repubblica. Il 2 giugno 1946 e il Paese

Il referendum istituzionale di settantacinque anni fa prende le mosse dal decreto luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944, emanato durante il secondo governo di Ivanoe Bonomi. Tale decreto stabiliva che, dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali (monarchia o repubblica) sarebbero state scelte liberamente dal popolo italiano, estendendo il voto alle donne

di Gianluca Ruotolo, pubblicato il 6 giugno 2021 su “ilformat.info” https://ilformat.info/2021/06/06/una-vita-difficile-per-la-repubblica-italiana/ Se c’è un film che rende perfettamente l’ atmosfera dell’Italia del 1946 e del referendum monarchia repubblica quello è Una vita difficile di Dino Risi, magistralmente interpretato da Alberto Sordi nei panni di Silvio Magnozzi, ex partigiano e giornalista coraggioso che scrive per il quotidiano di sinistra Il Lavoratore e che stenta a mettere insieme il pranzo con la cena.

UNA VITA DIFFICILE

Alla vigilia del referendum il nostro voleva scrivere in prima pagina «fuori il re!», ma il direttore, pur convinto della vittoria repubblicana, lo trattiene invitandolo ad essere prudente. Qualche sera dopo Magnozzi, che convive con la compagna Elena (Lea Massari) è affamato ed in cerca di una trattoria che accetti le sue cambiali per pagare la cena. Dopo un paio di tentativi infruttuosi la coppia incontra casualmente un amico di Elena, il marchese Daniele Capperoni (Daniele Vargas) che li invita dai principi Rustichelli. Non essendo vestito come si conviene Magnozzi accetterà solo dopo qualche incertezza, cedendo quando il marchese insisterà dicendogli che uno scrittore ed artista come lui non ha il dovere di essere elegante. Una volta entrati in uno splendido salone gli ospiti si riuniscono attorno al tavolo e vengono raggiunti dall’ anziana principessa, che osserva attentamente la coppia prima di invitare tutti a sedersi.

REPUBBLICA: VOTI 12.718.000.019

Qui i due scopriranno di essere stati coinvolti solo perché i nobili erano in tredici a tavola e, subito, nascerà una discussione sul comportamento di Vittorio Emanuele III, che Magnozzi, tra le proteste degli astanti, tra i quali anche una coppia di tedeschi, accusa di essere fuggito invece di andare a combattere al Nord con i partigiani. Dopo poche battute la radio comunica i risultati elettorali del referendum, iniziando con «Monarchia voti 10 milioni 709 mila 423». Gli aristocratici si rallegrano pensando di avere vinto e, tra gli astanti si sente anche un commento in lingua tedesca. Subito dopo, però, si ode: «Repubblica voti 12 milioni 718 mila 019». Da oggi l’Italia è repubblicana” e subito cala un silenzio di tomba. Improvvisamente una ospite si mette a piangere, la vecchia matriarca si alza sentendosi venir meno e tutti i nobili la seguono abbandonando il tavolo. Magnozzi ed Elena, rimasti soli, finalmente mangiano e brindano con una coppa di champagne. Nasce così la Repubblica italiana.

LA POLITICA IN VISTA DEL REFERENDUM E DELLE ELEZIONI

Tra le forze politiche prima del Referendum l’orientamento monarchico era decisamente minoritario, tanto che nel Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) l’unico partito favorevole alla monarchia era il Partito Liberale. Al congresso nazionale tenutosi a Roma dal 29 aprile al 3 maggio 1946, prevalse con 412 voti contro 261 un ordine del giorno di Edgardo Sogno sulla questione istituzionale che, pur lasciando a tutti gli iscritti la più ampia libertà di voto, si espresse a favore della monarchia contro l’ indicazione repubblicana sostenuta da Manlio Brosio. Il Fronte dell’Uomo Qualunque, un raggruppamento di destra guidato dal liberale Guglielmo Giannini, tenne il suo congresso di fondazione a Roma tra il 16 ed il 19 febbraio del 1946. Il partito assunse una posizione formalmente agnostica sulla questione istituzionale, salvo poi esprimersi in favore della monarchia con un’ esplicita indicazione di voto in tal senso.

I PARTITI DEL CLN ERANO PER LA REPUBBLICA

Nel Cln Psiup, Pci, Pri e Partito d’Azione si erano espressi per l’opzione repubblicana, seguendo orientamenti storici e consolidati. Nel frattempo la Democrazia Cristiana aveva tenuto il suo primo congresso tra il 24 e il 28 aprile 1946, poco prima del voto referendario. Nell’occasione il vicesegretario Attilio Piccioni, relazionando sulla questione istituzionale, aveva riferito di un sondaggio svolto in 86 comitati provinciali i cui risultati erano inequivoci : su 836.812 iscritti 503.085 si erano dichiarati a favore della Repubblica, solo 146.061 per la monarchia e i rimanenti 187.666 per la liberà di voto. Nelle conclusioni congressuali il segretario Alcide De Gasperi non affrontò il tema istituzionale, però la mozione presentata da Achille Pellizzari, «la Dc si pronuncia per la soluzione repubblicana», venne approvata a scrutinio segreto e a stragrande maggioranza con 730.500 voti favorevoli e 252.000 contrari, oltre a 75.000 astenuti e 4.000 schede bianche. Erano risultati inequivoci. Chiarissimi.

COME NASCE IL REFERENDUM ISTITUZIONALE

Il referendum istituzionale di settantacinque anni fa prende le mosse dal decreto luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944,  emanato durante il secondo governo di Ivanoe Bonomi. Tale decreto stabiliva che, dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali (monarchia o repubblica) sarebbero state scelte liberamente dal popolo italiano, estendendo il voto alle donne. Una volta finita la guerra il principe Umberto, nella sua qualità di Luogotenente del Regno, decretò Il 16 marzo 1946 che la forma istituzionale dello Stato ( monarchia o repubblica) sarebbe stata decisa proprio con un referendum popolare da tenersi contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Vittorio Emanuele III nel frattempo rimaneva re, ma solo sulla carta. Il monarca, infatti, il 5 giugno del 1944, cioè subito dopo la liberazione di Roma da parte degli Alleati, si ritirò dalla scena politica nominando il figlio Umberto II di Savoia Luogotenente generale del Regno (precisiamo: del Regno e non del re). Era una formula compromissoria caldeggiata da Enrico de Nicola, politico molto vicino alla Casa reale, che in seguito sarebbe divenuto il futuro capo provvisorio dello Stato, al quale si era giunti dopo lunghi conciliaboli con i partiti del Cln.

IL PERIODO DELLA LUOGOTENENZA

La luogotenenza sarebbe durata fino al 9 maggio 1946, quando in vista del Referendum e delle elezioni della Costituente l’ ancora re Vittorio Emanuele III abdicò, dietro pressioni di ambienti monarchici, per separare le proprie sorti ( e le proprie gravi responsabilità ) da quelle della casa Savoia. Il passo causò vibrate proteste dei partiti favorevoli alla soluzione repubblicana, secondo i quali – con buon fondamento – l’ assunzione della dignità regia da parte di Umberto II contrastava con l’art. 2 del DL luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98. Secondo la norma, infatti, ove la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata per la Monarchia il regime luogotenenziale sarebbe continuato fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul capo dello Stato. Contrariamente a quanto si crede il primo voto al femminile in Italia non è stato quello del referendum istituzionale e delle elezioni per l’Assemblea Costituente, infatti, le prime consultazione alle quali le donne votarono (e con alcune eccezioni) furono le amministrative che si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in cinque turni (chi è interessato veda a tale proposito il mio articolo https://ilformat.info/2021/04/03/10-marzo-7-aprile-1946-le-prime-elezioni-libere-del-dopoguerra/)

LE MERETRICI CHE NON VOTARONO NEL 1946

Il Decreto Luogotenenziale del 10 marzo 1946 dettava norme molto importanti in materia elettorale, stabilendo anche le norme per l’elezione dell’Assemblea Costituente e dando disposizioni relative al diritto di voto, che spettava a tutte le donne e agli uomini maggiorenni (all’epoca la maggiore età si raggiungeva a ventuno anni). Oltre a casi particolari era esclusa dal voto una categoria ben nota, quella delle prostitute, salvo quelle, eccezione nell’eccezione, che esercitavano la professione nelle case chiuse. Queste signore potevano legittimamente votare, in quanto l’esclusione dal suffragio era prevista solo per quante esercitavano il meretricio fuori dei locali autorizzati, probabilmente perché con l’ esercizio abusivo della loro arte esse violavano la legge. Arriviamo quindi al giorno della scelta decisiva: il referendum sulla forma istituzionale dello stato si svolse in tutta Italia il 2 giugno 1946 e la mattina del 3, con lunghe code ai seggi. Gli elettori dovevano esprimersi apponendo il segno su uno dei due simboli, un’Italia turrita e repubblicana o, in alternativa, sullo stemma sabaudo.

IL REFERENDUM DEL 2 GIUGNO

Gli italiani venivano posti davanti a un’alternativa secca che travalicava il giudizio storico e politico sulle colpe dei Savoia e di Vittorio Emanuele III, il re che aveva aperto la strada alla dittatura e che aveva tenuto un equivoco contegno nel corso del conflitto e ancor di più al momento dell’armistizio. I cittadini dovevano scegliere se rimanere legati al modello dell’Italietta liberale e prefascista oppure avviarsi su un percorso di rinnovamento, che alcuni avrebbero voluto radicale, fondando istituzioni nuove che li portassero verso una nuova democrazia. In quel momento storico la Repubblica rappresentava per molti, ed in particolare per quanti avevano partecipato alla Resistenza, la speranza di un cambiamento irreversibile di prassi, di uomini e di politica. L’ Italia del tempo sfiorava i quarantacinque milioni di abitanti, mentre gli aventi diritto al voto erano 28.005.449. Di questi si recò alle urne l’ 89,08%, con una percentuale di votanti favorevoli alla repubblica del 54,27%, pari a 12.718.641 voti, mentre i sostenitori della monarchia si fermarono invece al 45,73%, conseguendo in numeri assoluti 10.718.502 consensi.  I votanti furono in tutto 24.946.878, contando tra questi anche le schede bianche (1.146.729) e nulle (363.006).

NORD E CENTRO REPUBBLICANI

Sorprendentemente, la provincia più repubblicana fu quella di Trento, dove i monarchici raggiunsero a stento il 15  per cento. A seguire Bologna (Repubblica all’80%) e le province di Emilia Romagna e Toscana, con il voto repubblicano che superava il 70 per cento. Genova e Milano si fermarono a un’incollatura, rispettivamente con il 69% e il 68% di suffragi repubblicani. A Roma la Repubblica aveva raggiunto e superato il 51 per cento. Tutt’altra musica al Sud, dove la provincia più monarchica fu Napoli, città storicamente molto legata ai Savoia, con quasi il 79% dei suffragi. A seguire Lecce, con il 75% di voti monarchici e Salerno con il 73%, mentre Benevento sfiorava il 70% e Catania superava il 68 per cento. Il Paese era sostanzialmente spaccato in due: al nord la repubblica aveva vinto con il 66,2% dei voti, mentre al sud aveva prevalso la monarchia con il 63,8 per cento. Non tutti gli italiani poterono votare al referendum. Con il decreto legislativo n. 69/1946 il governo deliberò di non concedere il diritto di voto ai cittadini di alcune province di confine, su cui nel 1946 lo stato italiano non aveva ancora riacquistato la sovranità in quanto oggetto di contesa internazionale.

GLI ESCLUSI

Erano le zone ancora sottoposte al Gma (Governo militare alleato) o a quello jugoslavo, com’erano in quel momento Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara. Allo stesso modo non votarono i residenti della provincia di Bolzano, tranne i comuni che allora facevano parte della provincia di Trento, quali Anterivo, Bronzolo, Cortaccia, Egna, Lauregno, Magrè, Montagna, Ora, Proves, Salorno, Senale-San Felice e Trodena. Alcuni altri cittadini, per motivi diversi, furono esclusi dal suffragio in quanto alla chiusura delle liste elettorali si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale essendo trattenuti all’estero in campi di prigionia o di internamento. Essi, per forza di cose, non poterono votare e con un’interpretazione particolarmente rigorosa vennero esclusi anche coloro i quali erano invece riusciti a rientrare in Italia prima del voto, ma dopo la data di chiusura delle liste elettorali, nell’aprile 1946. Una volta cessate le operazioni elettorali, le schede e i verbali delle 31 circoscrizioni vennero inviate a Roma da tutta Italia e furono depositate nella Sala della Lupa di Montecitorio. Il calcolo dei voti si svolse davanti ai magistrati della Corte di Cassazione, agli ufficiali angloamericani della Commissione alleata e ai giornalisti.

LO SCRUTINIO DELLE SCHEDE E I RISULTATI

In una prima fase sembrava che la monarchia fosse in vantaggio, ma fu un breve momento. Il quotidiano “La Stampa” di mercoledì 5 giugno, a due giorni dal referendum, titolava: «La Repubblica in vantaggio di 1.200.000 voti»; mentre il “Corriere della Sera” di giovedì 6 invece: «È nata la Repubblica italiana», riportando i risultati: repubblica 12.718.019, monarchia 10.709.423 . Ancora, il 6, sempre “La Stampa”, allo stesso modo scriveva: «È nata l’Italia repubblicana»; sottotitolando: «La famiglia reale si imbarca per il Portogallo». Il 10 giugno alle sei del pomeriggio, nella Sala della Lupa a Montecitorio, il presidente della Corte di Cassazione Giuseppe Pagano proclamò i risultati del referendum  (12.672.767 voti per la repubblica e 10.688.905 per la monarchia). Dato che mancavano ancora i risultati di 118 sezioni, egli rinviò la proclamazione definitiva a una seduta successiva, fissata per il giorno 18. Il verbale si chiudeva con una frase sibillina: «La corte, a norma dell’art. 19 del D.L.L. 23 aprile 1946, n. 219, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami presentati agli uffici delle singole sezioni e agli uffici circoscrizionali o alla stessa corte concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum; integrerà i risultati con i dati delle sezioni ancora mancanti e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli».

SITUAZIONE DI GRAVE INCERTEZZA

In una situazione di grave incertezza la mattina del 12 giugno fu inviata al Presidente del Consiglio dei ministri De Gasperi la risposta scritta del Quirinale. Umberto II dichiarava che avrebbe rispettato «il responso della maggioranza del popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale sarebbe risultato dal giudizio definitivo della Corte Suprema di Cassazione». In sostanza per i monarchici, sulla base del decreto di indizione del referendum, l’ opzione vincitrice avrebbe dovuto conseguire la maggioranza degli elettori votanti, calcolati sommando i voti espressi a favore di monarchia, repubblica, schede bianche e schede nulle. La sera stessa De Gasperi riunì il Consiglio dei ministri, il quale vista la proclamazione dei risultati referendari da parte della Corte di cassazione del 10 giugno deliberò che le funzioni di Capo provvisorio dello Stato dovevano essere assunte ope legis dal Presidente del Consiglio sulla base all’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 16 marzo 1946, e ciò nonostante il rinvio della comunicazione definitiva al 18 giugno. La risposta di Umberto non si fece attendere, il sovrano con un reciso proclama contestò così la decisione del governo: «Questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza».

IL «RE DI MAGGIO» SE NE VA

Il 13 giugno stesso, nel primo pomeriggio, Umberto II dopo aver salutato la guardia nel cortile del Quirinale partì dall’aeroporto di Ciampino verso il Portogallo, con una decisione unilaterale che, secondo De Gasperi, egli avrebbe cercato di tener nascosta. Il proclama dell’ ormai ex re fu definito dal Presidente del Consiglio «documento penoso, impostato su basi false e artificiose». De Gasperi ribadì che i dati diffusi dalla Corte di Cassazione il 10 giugno 1946 non si dovevano considerare una semplice comunicazione, ma erano invece una proclamazione a tutti gli effetti. Il 18 giugno, infine, la Corte  di cassazione con dodici voti contro sette proclamò i risultati definitivi. La Repubblica ottenne il 54,3% (12.718.641 voti), mentre a favore della  monarchia si espressero 10.718.502 elettori (pari al 45,7%). Tutti i ricorsi dei monarchici furono respinti dalla Cassazione. Secondo la Suprema Corte per maggioranza degli elettori votanti si doveva intendere maggioranza dei voti validi e le voci di presunti brogli non ebbero riscontro.

CELEBRAZIONI E FESTE NAZIONALI

Prima del 1946 la giornata in onore del Regno d’Italia era la festa dello Statuto Albertino, che cadeva la prima domenica di giugno. Dopo la svolta fu proclamato festa nazionale l’11 giugno 1946, il primo giorno di vita della Repubblica, ma la prima Festa della Repubblica come tale fu celebrata il 2 giugno 1947, nell’ anniversario del Referendum. Nel 1948 si tenne anche la prima parata militare in via dei Fori Imperiali a Roma, anche se il 2 giugno divenne festa nazionale a tutti gli effetti soltanto nel 1949 e il primo Presidente della Repubblica a celebrarla fu Luigi Einaudi. Dal 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, venne introdotta la XIII disposizione transitoria che recitava così: «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale». Questa disposizione, poco transitoria, ebbe vita lunga e fu abrogata solo nel 2002. Umberto II, il Re di maggio, era morto da quasi vent’anni, nel lontano 1983.

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